domenica 23 marzo 2008

Bolle e scrittura

Qualche settimana fa ho partecipato con Max Citi a un incontro organizzato da Alessandro Defilippi. Dopo la presentazione dell’antologia di Max (In controtempo)L’incontro (informale, con buffet vario e gustoso, e per nulla accademico) si è dipanato in una discussione di buon livello sulla scrittura che ha toccato temi stimolanti e impegnativi.

In particolare mi ha fatto molto riflettere una domanda di Barbara Bassino (autrice tra l’altro di un racconto sul penultimo Fata Morgana): “Quando l’autore di un racconto fantastico ha raggiunto il finale?” Ovvero, quando il racconto in questione è davvero finito?

Naturalmente la domanda è adeguata ad ogni tipo di narrativa – romanzo e novella, oltre che racconto - di genere o meno. Ma in alcuni casi rispondere è più facile; banalizzando, per il poliziesco si potrebbe dire: “quando l’indagine è terminata e il caso è risolto” e per il romanzo rosa “quando si è giunti ad un soddisfacente happy end”; per il falso racconto fantastico: “quando ciò che appariva soprannaturale è stato spiegato” ecc. Il racconto o il romanzo fantastico, invece, devono restare in bilico tra possibile e impossibile, devono cioè mantenere aperta fino in fondo la frattura del reale, insomma devono mantenersi sul crinale, pena lo scivolamento verso uno dei pendii: meraviglioso o spiegazione razionale.

Prima riflessione: è possibile restare sul crinale fino in fondo? Credo di sì: penso ad alcuni racconti di Cortazar, naturalmente, a quelli di De la Mare (che molti lettori trovano insoddisfacente e un po’ algido proprio perché non si sbilancia ed è avaro di “effetti”)

Seconda riflessione: Ammesso che sia possibile, esiste una ricetta?

Max ha tentato una risposta, io ho provato a indicare un percorso (seminare il sentiero di vie traverse, socchiudere molte porte) e ancora Max, messo alle strette da Consolata, è tornato sull’argomento suggerendo che il finale deve rispettare/rispecchiare la complessità del mondo. Sono d’accordo e credo che la sua affermazione si possa tradurre così: Per ogni storia esistono un gran numero di finali insensati/impossibili/inopportuni (nell’esempio di Max, A e B diventano amici e A sposa la sorella di B, ad esempio) e non più di due o tre finali appropriati. Di questi uno o forse due sono in discesa, non necessariamente banali, forse anche “sorprendenti”, ma non illuminanti, più o meno i finali che un lettore di lungo corso avrebbe immaginato. Poi esiste “il” finale, quello disvelatore: che spinge chi legge a chiedersi “ma come…?” e di seguito a riflettere: “però…” e che rimane dentro a lungo, sfidando a rivoltarlo come un calzino, a continuare a scavare. Esattamente come accade nella vita reale.

Terza riflessione Il problema posto da Barbara e da Consolata, però, ha anche un’altra dimensione, più tecnica e contemporaneamente più onirica . Quando e come chi scrive riconosce “il” finale?

Posta così la questione diventa molto più personale, qualcosa di più ampio e più scivoloso delal scelta di un finale non ovvio. Posso soltanto provare a schematizzare come mi pare che funzioni per me.

1) l’inizio del racconto scaturisce da una collisione (come già diceva Max a Barbara), dall’intreccio di almeno due elementi: una situazione, un luogo o un’atmosfera e uno stato d’animo, un’emozione contraddittoria. Il mio esempio a Barbara è stato l’inizio del racconto che sto scrivendo per Alia: c’è un cunicolo, un “buco” nella roccia e il mio fascino/orrore per i buchi. Perché mai devo (il personaggio deve) stare in quel cunicolo?

2) La storia prosegue in maniera razionale (si tratta di una miniera dove si estrae… aiutato da… verso il quale prova… La trama nasce mano a mano – per i racconti non uso vere e proprie scalette – suggerendo strade traverse e illuminando porte socchiuse che sul momento non saprei spiegare perché inserisco ma che ho imparato a lasciare perché alla fine mi serviranno (almeno alcune, le altre dovrò tornare indietro a cancellarle) e con alcuni innesti “visionari”. Non di rado a guidarmi sono le parole e il loro suono; l’uso di un word processor invece di rendere meno libera la mia scrittura mi consente di provare molti accostamenti.

3) Il finale. In Il cervello lepre e la mente tartaruga, Guy Claxton sostiene con appoggiandosi a doviziosa documentazione scientifica che oltre al cervello razionale possediamo una submente profonda (che è anche ma non soltanto l’inconscio) che riflette sul mondo con modalità non soltanto di problem solving ma mediante analogie, integrando quelli che il cervello definirebbe “dati insufficienti” in sintesi fulminanti. Come farebbe un poeta, in un certo senso. E’ dalla submente che salgono intuizioni, soluzioni originali, creazioni artistiche, illuminazioni. Naturalmente una volta “salite” vanno riconosciute razionalmente, vagliate dal senso critico, spiegate con il linguaggio. Molti intervistati da Claxton hanno descritto questa modalità di conoscenza come una “bolla che emerge dal profondo” e che scoppia in superficie. Il paragone mi calza a meraviglia: il mio finale sale come una bolla. A volte la bolla non scoppia, a volte è una bollicina stupida… Ma, prima o poi, il finale emerge, devo soltanto aspettare.

Detta così, sembra una via di mezzo fra la ricetta della nonna e una formula magica, ma sarei curiosa di sapere se qualcuno si riconosce nella mia descrizione…

A proposito di racconti che riescono a restare sul crinale, avrei voglia di sfidarvi ad elencarne almeno un paio ciascuno. Sarebbe bello creare una lista di autori e opere irrinunciabili di questo nobile genere.

La foto in chiusura... beh ho scritto il post ascoltando la sua musica, come potevo non citarlo?


3 commenti:

Davide Mana ha detto...

Suonerà banale - la storia finisce quando si è detto tutto ciò che era necessario dire.
Come faccio a sapere quando questo accade?
È lì che sta la differenza fra gli scrittori e "quelli che scrivono".

Lo scrittore sa riconoscere il superfluo.
Magari nn mentre scrive, ma in fase di revisione.

Io non pianifico alla morte le mie storie.
E tuttavia, anche l'arcere zen, che scocca la freccia senza guardare il bersaglio, una vaga idea di dove stia il bersaglio ce l'ha.
Allo stesso modo, io posso non sapere come finirà la storia (spesso scrivo per scoprirlo) ma ho un'idea generale della direzione nella quale la storia evolverà.
Poi lascio mano libera ai persnaggi, ma li "punto" in una certa direzione.

Samuel Delany dice che il racconto, a differenza del romanzo, si concentra su un evento saliente nella vita del protagonista.
Ecco - quando ho fotografato con l'esattezza desiderata quell'evento, fornendo al lettore tutte le informazioni necessarie affinché arrivi alle proprie conclusioni (o alle conclusioni che io voglio che raggiunga), posso anche spegnere il word processor e andare a farmi un chinotto.

consolata ha detto...

Sono d'accordo con Davide. Neanch'io pianifico le mie storie ma so dove voglio andare a parare, anche se non è detto che ci riesca sempre. D'altra parte quando si allestisce un mondo temporaneo come è ogni racconto, per quanto breve sia, si costruiscono anche delle pareti e prima o poi i personaggi vanno a sbatterci. E meno male che non sono svegli come il Truman dell'omonimo show, se no le nostre abitazioni sarebbero invase da ospiti non sempre graditissimi (andreste a cena con tutti i vostri personaggi?). Oltre a quelle pareti io non riesco a spingerli. Anzi, il mio compito principale scrivendo una storia è andare a esplorare quel mondo temporaneo che ho spalancato senza ancora conoscerlo bene. Per cui, per riprendere la frase di Davide, la storia finisce anche quando si è detto tutto quello che si riesce a dire, almeno per quel che mi riguarda. Naturalmente quando si tratta di racconti fantastici il discorso è molto più delicato. Come lettrice mi capita abbastanza spesso di sentirmi frustrata, quando scrivo non so sempre riconoscere il superfluo né capire se manca qualcosa. Le domande a Massimo nascevano da questo disagio.

S_3ves ha detto...

Ciao a entrambi e grazie delle osservazioni.
Sono d'accordo con voi, particolarmente con l'osservazione di Davide tratta da Delany (racconto come narrazione di un fatto saliente della vita del protagonista) e con quella di Consolata sul mondo del racconto racchiuso fra quattro pareti. Anch'io quando scrivo conosco almeno la direzione verso la quale si muove la storia e non vedo (non mi interessa vedere) oltre le pareti del teatrino che ho allestito.
A incuriosirmi, però, è anche il modo in cui "intenzione" (chiamiamola così) e "visione" si saldano, anche se mi rendo conto che 1) nella maggior parte dei casi il soggetto scrivente che studia se stesso sta compiendo una masturbazione mentale; 2)
Il tutto è maggiore della somma delle parti, qui dei vari atti ed elementi che contribuiscono all'atto di scrivere.
In questo senso descrivevo la sensazione della bolla che emerge.
Probabilmente è la mia esperienza di docente che mi spinge a cercare di definire, abbiate pazienza.
Comunque no, non andrei mai a cena con uno dei miei protagonisti. Ingombranti e spesso odiosi, talvolta sono troppo diversi da me per essere tollerabili, talvolta sono il distillato di un lato di me che riesco a esplorare soltanto sulla pagina, a debita distanza, e mai - assolutamente mai - a tavola.

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