lunedì 30 agosto 2010

3 de/scrivere

Parliamo un po' della descrizione, ora. Quelle che seguono sono riflessioni sparse, che partono, però, proprio dall'inizio, dalle domande più ovvie.
È indispensabile descrivere un personaggio?
Tanto varrebbe chiedersi se sia indispensabile avere un personaggio. Per scrivere un storia di solito occorre, appiopparla a qualcuno. Altrimenti non è una storia, ma un (più o meno lungo) bollettino dell’ANSA.
Naturalmente occorre intendersi sul termine «personaggio». Nell’antichità non sempre i personaggi erano caratterizzati come tali, ma descritti tramite una delle loro passioni o caratteristiche dominanti: l’ira di Achille, la curiosità e l’astuzia di Odisseo ecc. Eppure Achille e Ulisse erano davvero personaggi, non soltanto tipi. Perché? Perché erano essenzialmente, grandiosamente umani.
Prima conclusione: per scrivere una storia ci vuole un personaggio che deve assomigliarci abbastanza da permetterci di capirlo (identificarci con lui/detestarlo/ disprezzarlo…). Insomma, abbastanza da suscitarci emozioni.
È indispensabile dargli un nome?
No. Fior di scrittori hanno evitato di assegnare un nome al loro personaggio. Possiamo consapevolmente (e molto ambiziosamente…) decidere di tacere il suo nome perché rappresenta la condizione umano Oppure perché vogliamo creare mistero o senso di distanza, impedire al lettore di entrare in intimità con lui. Possiamo anche fornirgli un soprannome, uno pseudonimo, chiamarli Cappello Verde, Il gran Lombardo (come Vittorini) ecc. Possiamo non usare il nome perché il narratore e il personaggio sono già fin troppo intimi (per esempio se il personaggio e il narratore coincidono, o se il personaggio è l’unico oggetto di attenzione del narratore). O perché un certo personaggio ha soltanto il ruolo di uditore, come accade nel romanzo epistolare, come fa De La Mare in Memorie di un donna in miniatura (Mio caro amico… e giù trecento – magnifiche – pagine di lettera).
Comunque, se decidiamo consapevolmente di fornire un nome al personaggio, ricordiamoci che il nome non è un accidente in narrativa, non è neutro, ma ne è parte integrante:
Quando si svegliò, Gregor Samsa… Gregor non solo esiste ma ha un nome austero e insieme ordinario, il nome giusto per rendere credibile la trasformazione di un oscuro impiegato in scarafaggio… il nome adeguato a garantire che Gregor, con quel nome, non è certo il tipo bizzarro da andarsi a cercare un destino tanto incredibile, che diventare uno scarafo avrebbe potuto accadere a ognuno di noi. Oltre che, naturalmente, solo e soltanto a lui, Gregor. Ma Kafka avrebbe ottenuto il medesimo risultato così: Quando si svegliò, Arcimboldus de Ferlecchis…?
Teniamo presente, invece, che battezzare un personaggio Fardezio Mud (Il sottolineatore solitario di M. Bosonetto, Einaudi), denuncia l’intenzione di guardarlo dall’alto e non consente ai lettori di identificarsi completamente. Il personaggio, insomma, non ha più completa autonomia. E procediamo.
Descrizione diretta
Adele era una ragazzina di dodici anni, alta e magra, con i capelli biondi, indossava sempre e soltanto tute da ginnastica. Arrivava a scuola perennemente in ritardo. Suo padre, un ingegnere con la passione della lettura, aveva coltivato in lei la curiosità e lo spirito d’osservazione…
Nel ventesimo secolo (e nel ventunesimo) questo tipo di descrizione non usa più e quando viene rispolverata è comunque utilizzata in maniera particolare. Sempre De La Mare, per esempio, nel testo… descrive minuziosamente il personaggio per sottolinearne l’indefinibile stranezza e il legame inquietante che si crea fra lui e il narratore.
Descrizione indiretta
L’Adele di allora dava l’impressione di riuscire a bucare con i gomiti e le ginocchia la tuta rossa da ginnastica e di inciampare nei piedi troppo lunghi. Correva sempre, la treccia bionda che sbatteva sulle spalle e una pila di libri e quaderni con la copertina gialla sotto il braccio. A suola la rimproveravano spesso per i troppi ritardi, ma Adele non perdeva tempo, semplicemente di fermava ad ascoltare e a guardare.
Così di Adele ne sappiamo decisamente di più: le piacciono il rosso e il giallo, probabilmente si sente goffa, riceve spesso sgridate ottuse che non merita. È capace, nonostante sia sempre affannata, di fermarsi contemplare il mondo.
N.B. In un racconto, l’importanza di calibrare un descrizione è ancor maggiore: se in un romanzo avete duecento pagine di tempo per descrivere il personaggio, in un racconto medio ne avete dieci, quindici. E non potete seppellire il povero lettore sotto una valanga di puntigliosi aggettivi.

Dov’è il narratore?
Quando il narratore descrive, dove si pone rispetto al suo personaggio?
La bella Iset s’immobilizzò a un metro da Ramses. Lui, il suo primo e unico amore, continuava a impressionarla. Era troppo grande per lei, Iset non sarebbe mai riuscita a cogliere la vastità del suo pensiero. Ma la magia della passione colmava quell’insuperabile fossato (C. Jacq).
Non c’è dubbio, Ramses è visto dal basso verso l’alto. Sinceramente, il brano mi fa schifo, ma rivela con innegabile chiarezza che Iset è innamorata e timorosa di Ramses e che Ramses vede lontano, pensa in grande, concepisce disegni che lei, poveraccia, nemmeno vuole immaginare (oppure, scegliete voi, che Iset è un po’ scema, Ramses un pallone gonfiato e Jacq un autore pedestre, conservatore e maschilista).
Fardezio Mud lottava per imporre un ordine alle pagine del suo manoscritto, cinquant’anni di fatiche destinate a restare nell’ultimo cassetto della scrivania. Finalmente le pagine accettarono di restare, almeno temporaneamente, al loro posto, una dietro l’altra secondo numerazione. Ma Fardezio non si illudeva: avevano soltanto firmato una tregua.
Anche questo fa schifo, lo so. E non è di Bosonetto, al quale chiedo scusa. È mia. Scrivendola, ho scrutato Ferdezio dall’alto in basso, con sufficienza, l’ho descritto patetico, nella sua lotta di perdente con gli oggetti e il destino (e mi sono sentita geniale, modestamente). E vi ho impartito quest’ordine subliminale: non aprite quel cassetto. Tanto i cinquanta chili di pensate di Fardezio sono un pacco di fregnacce.
Paddy Verchoyle era un uomo che aveva le mani in pasta in una mezza dozzina d’affari, quasi tutti redditizi e che sarebbero ancora migliorati col tempo. Paddy era quel tipo di persona. Lui stesso era un po’ artigiano, e non gli piaceva avere a che fare con materiale di seconda qualità: lottava come una furia con coloro che cercavano di rifilargli mercanzie scadenti. Avrebbe potuto esser ancor più ricco ma nello stesso tempo avrebbe anche potuto essere più povero, e al momento non stava certamente diventando tale. (Frank O’Connor Il raccontatore, Sellerio).
Qui il personaggio è visto di fianco, alla pari, con interesse e partecipazione, ma non con parzialità. Paddy non è uno stinco di santo, non gli piace passare per scemo, ma non è troppo avido. Insomma è una persona come tante che potrebbe anche risultare simpatica e sorprendete. (e infatti lo è). La visione di fianco è senz’altro più promettente, quella che rivela di più e che maggiormente intriga il lettore. I personaggi visti di fianco possono essere anche meschini ed egoisti, ma essendo molto umani non risultano mai completamente odiosi e estranei. ( Per inciso, sono quelli che più ci aiutano a sviluppare l’empatia).
Dentro!
Il narratore, però, può essere all'interno, ovvero portare il lettore nella mente del personaggio. Il punto di vista della narrazione può essere quella del narratore onnisciente (NO), l’indiretto libero (IL), la prima persona (IO). Comunque del personaggio si conoscono direttamente non solo e non tanto le caratteristiche somatiche, ma soprattutto i pensieri, le emozioni, spesso rese con la tecnica del monologo interiore (MI). È il modo che mi è più congeniale di descrivere un personaggio importante, che il lettore deve accettare, compatire, con cui può identificarsi mentre è troppo dispendioso per un personaggio
Dio sta nei particolari?
Probabilmente sì, almeno quando si occupa di letteratura. Frasi come «Carmen siede sulla sedia». possono suonar ovvie (e dove potrebbe sedere, la povera Carmen, per aria?) o essere illuminanti (ci sono cinque comodissime poltrone, nella camera, e il lettore lo sa. Ma Carmen ha scelto l'unica sedia…). Stiamo quindi attenti, chiediamoci se il dettaglio che abbiamo descritto sia indispensabile, utile o superfluo, piazzato lì per non troncare la frase, per conferirle un naturalismo ovvio.
Nella narrativa un rigido naturalismo è un vicolo cieco. In un’opera rigidamente naturalistica il particolare è presente perché connaturato alla vita, non perché connaturato all’opera […] L’arte è selettiva e la veridicità è la veridicità dell’essenziale che crea movimento. (Flannery O’Connor, Il territorio del diavolo)
Se Carmen sceglie la sedia, invece di una poltrona, avrà i suoi motivi. Forse vuole punirsi, o forse rifiuta di rilassarsi e vuole rimanere in guardia. O forse la sedia è posta davanti alla finestra e Carmen deve assolutamente vedere che cosa accade in strada. O forse… Se non sappiamo perché Carmen debba sedere «sulla sedia» e non semplicemente «sedere», forse faremmo meglio a posare la penna, o togliere le dita dalla tastiera e ad aspettare fino a che la nostra visione di Carmen, lì seduta, non si fa più precisa.
A proposito, ho sempre pensato al territorio del diavolo come a quel luogo della mente in cui il lettore forse non vorrebbe andare, ma dove intende portarlo il narratore onesto, che senta il bisogno di raccontare un storia parlando di noi (la gente) e non di se stesso, e di dire qualcosa che valga la pena di essere letto. Anche domani.

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