sabato 28 novembre 2009

Due o tre cose che so di lei (e di lui)


Mia madre Adriana Treves è morta qualche sera fa, imbottita di antidolorifici, scivolando nel nulla, finalmente serena dopo venti giorni travagliati e ormai inconsapevoli scanditi da un respiro sempre più faticoso.

Standole vicina ho avuto tempo per pensare e per sforzarmi di non farlo, per ricordare e per scoprire quanto l’oggi insidioso sbiadisca i ricordi di ieri.

1Ora aspetterò con pazienza che le immagini riemergano, che i frammenti di lei com’era – e non come l’avevano ridotta la consuetudine frettolosa e la vecchiaia – si ricompongano. Non è di questo che voglio – che posso – scrivere qui e adesso.

Ma sento di dover pagare qualche debito e dove meglio che in questo spazio dedicato al dubbio, al rifiuto di luoghi comuni facili e consolatori?

Grazie a Massimo e a Morgana, genero e nipote di Adriana: grazie per aver trovato le parole e avermi restituito mia madre come io da troppo tempo non sapevo più vederla.

Grazie a tutti coloro che mi sono stati vicini, che mi hanno chiesto di lei e che di lei mi hanno parlato, agli amici che mi hanno scritto, vincendo con semplicità e sensibilità l’imbarazzo di porgere le solite condoglianze.

Pagare il terzo debito è più difficile, perché è impossibile riassumere a parole la storia e la personalità di chi conosci da sempre, ma ci proverò. La vita di mia madre si è svolta quasi tutta nel Novecento. Nata nel 1923, quando l’Italia è entrata nella Seconda guerra mondiale aveva l’età attuale di Morgana. A guerra finita mia madre ha conosciuto mio padre, suo compagno per la vita: sono vissuti insieme dal 1949 al 1981, anno della morte di lui. Non si sono sposati prima perché lui era sposato e separato in anni in cui il divorzio non era un diritto ma soltanto un peccato (per la Chiesa) o una condizione civile inesistente. Poi la possibilità di divorziare è finalmente giunta, ma ormai tutti e tre, loro ed io, avevamo imparato a farne a meno. Compagni in senso sentimentale e in senso politico, i miei genitori hanno sognato un mondo che imparasse a vivere in pace, una società equa e giusta, nella quale il benessere che allora sembrava più raggiungibile di oggi, fosse alla portata di tutti. Allora quelli come loro li chiamavano comunisti e tali si consideravano i miei, ma sono usciti dal PCI dopo l’invasione dell’Ungheria.

Gli anni sono passati e Giancarlo e Adriana si sono risvegliati in un mondo ben diverso. Erano due sognatori, capaci di fare il giro del mondo in vespa ma tragicamente inadeguati ad affrontare una realtà dominata dal successo individuale, dal denaro, dalla piaggeria, a vivere una quotidianità mediocre.

Mio padre è morto amareggiato nel gennaio 1981. Da allora mia madre è sopravvissuta da sola per 28 anni. Da sola stava bene, in un certo senso, ma ormai era soltanto metà di una vecchia coppia di illusi. Negli ultimi anni, mentre perdeva la presa sulla realtà e si allontanava dai propri ricordi, due figure le sono rimaste indelebili nella mente e non le ha mai confuse: Morgana, la sua nipotina. E l’esecrabile Papi. Come direbbe Lui, i comunisti continuano pervicacemente a essere tra noi, celandosi in panni insospettabili, come quelli di una vecchietta svanita.

Io ho attraversato sperando gli anni della fantasia al potere, osservato con crescente sgomento le ombre del terrorismo e la sinistra che si abbottonava nei suoi panni sempre più stretti e perbene, ho serrato i denti negli anni Ottanta, quelli da bere. Mia figlia è nata a ridosso della ventata di Mani Pulite. Così ho imparato a sognare con cautela, a non farmi troppe illusioni, ho perfino capito che in questo mondo la sicurezza economica, la concretezza sono davvero importanti.

Ma ringrazio Adriana e Giancarlo per avermi insegnato che sognare un mondo migliore è un diritto di tutti e che non dobbiamo rinunciare a farlo.

E per avermi regalato quel tanto di umorismo che mi aiuta a sopportare questo nostro tempo.

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