
Io sono quella in gramaglie. Il corvo.
I corvidi mi piacciono tutti: corvi, cornacchie, taccole, ghiandaie e nocciolaie; le gazze sono le più eleganti, ma mi sento gazza soltanto qualche giorno al mese e, anche in quei giorni speciali, soltanto per qualche ora. I corvidi sono onnivori, piuttosto svegli, curiosi e con buona memoria, adattabili e un po’ goffi nel volo. Il mio ritratto, praticamente. Nelle varie mitologie i corvidi sono messaggeri divini, hanno dimestichezza con i morti e conoscono la strada per l’Aldilà. Io no. Ma il divino, la morte e l’Aldilà sono temi ai quali la maggior parte degli umani pensa intensamente (o ai quali evita intensamente di pensare). Figurarsi un umano che cerca di scrivere narrativa come me...
La mia classe, invece…
Rappresentare i miei alunni come un gruppo di animali di vario genere non è, come potrebbe sembrare, una perfidia. Intanto nell’immagine scelta sono bestia anch’io, e poi a farmela scegliere sono stati due particolari: la diversità di sembianze, provenienze e formato (le mie classi sono molto variegate) e il fatto che gli “alunni” stiano davanti a me, e guardino quasi tutti da un’altra parte. Io-corvo li seguo, li osservo, cercando di capire dove intendano andare, che cosa stiano guardando, che cosa accidenti vedano all’orizzonte… E il mio lavoro in classe è più o meno questo.
Una volta stabilito che cosa vedono e qual è il loro orizzonte, posso cominciare a spiegare quello che – almeno secondo il ministero – dovrebbero vedere, quello che vedo io e quello che, a mio parere, meriterebbe di vedere.
Ma in queste ultime settimane mi sono chiesta che cosa accidenti abbiano visto alcuni rappresentanti del nostro legittimo (ma non auspicabile) governo, nel gruppo di animali (in senso dantesco) formato dalla mia classe e da me.
Io (e credo anche la maggior parte delle persone sane di mente) vedo preadolescenti (11-14enni) provenienti da numerose regioni italiane e da un buon numero di stati: vedo italiani del nord, del centro, del sud e delle isole… vedo rumeni, albanesi, moldavi, qualche russo, vedo maghrebini di varia nazionalità, vedo sinti e talvolta rom, vedo peruviani, ghanesi, ivoriani, cinesi. Dipende dalle annate. E ognuno di loro vive in famiglie diverse: regolari, irregolari, allargate o affidatarie o, più raramente, in comunità per minori non accompagnati.
E ascolto dichiarazioni curiose: “Sa, prof, io sono valacco!” - “Valacco? Acc.! Ma sei stato sulle Alpi transilvane?” - “Sì, sono stato anche al castello di Dracula. Però preferisco Bucarest, c’è più vita!”. Giuro.
Mettendoci quel tanto di attenzione che contraddistingue un docente decente, imparo anche “piccole” differenze alle quali, chissà perché la gente tiene tanto…, per esempio che i miei “rom” spesso sono non sono rom ma sinti e che “rom” e “rumeno” non sono sinonimi: queste due semplici parole sottintendono storie, stili di vita e tradizioni diversissime e che confonderle non è soltanto sintomo di inaccettabile ignoranza ma è pericoloso, perché questa ignoranza facilona cova sotto la cenere un’intolleranza che nel Novecento abbiamo già visto all’opera troppe volte e con conseguenze nefaste.
Gli “animali” della mia classe hanno aspettative molto differenti nei confronti della scuola, pensano spesso che non possa garantire loro un futuro dignitoso, a volte si aspettano pochissimo, talvolta la subiscono e basta. Ma io non sono “la scuola” anche se mi sforzo di rappresentarla nel suo spirito di istituzione pubblica e laica. Io sono una persona, e da me loro si aspettano almeno qualche risposta.
E io - pensando alle ultime isteriche proposte dei rappresentanti di questa maggioranza sul tema “sicurezza” e alle educate e patetiche rimostranze dell’opposizione - sudo freddo.
Che cosa risponderei se qualcuno della mia classe mi chiedesse: “Prof, se prendessero le impronte a “Lucia”, lei che cosa direbbe?” “Lucia”, perché come tutti i ragazzini, loro le categorie astratte dei politici preferiscono chiamarle per nome… E “Lucia” ha diversi fratelli e sorelle iscritti a scuola e frequentanti.
Dopo molte riflessioni ho deciso che darei loro questa risposta, che mi annoto, tanto per essere pronta:
- che fondare la “sicurezza” di un paese sulla schedatura di massa di un’etnia significa dimenticare tutte le lezioni imparate a carissimo prezzo nel secolo appena trascorso e nel quale sono nati tutti i politici che siedono in parlamento;
- che con una simile iniziativa lo stato che rappresento va contro lo spirito della costituzione, contro il buon senso, contro ogni decenza e contro ogni buon gusto.
- Che se, con il consenso tacito del parlamento, lo stato schedasse “Lucia” e fratelli solo perché appartengono a una particolare etnia, mi metterebbe automaticamente in contraddizione con i principi educativi sanciti da una scuola pubblica nata per minimizzare i gap sociali, economici e culturali dei propri alunni.
Per me i ragazzi della mia classe sono tutti diversi. E mi auguro che noi docenti, per loro, lo siamo altrettanto. Ammettere e apprezzare la diversità è l’unica garanzia contro l’anonimato e l’indifferenza.
Però, se voglio continuare a fare il mio lavoro, devo partire dall’assunto che tutti - loro e noi - abbiamo i medesimi diritti e che, al di là della nostra storia e personale e del nostro codice genetico, abbiamo potenzialità bastevoli a fare di ognuno di noi un individuo completo.
Ma queste sono riflessioni difficili per dei preadolescenti. E temo che, nonostante le chiacchiere e paroloni, non riuscirei a dare alla mia classe una vera risposta.
Fortunatamente questa brillante uscita i politici che ben conosciamo se la sono fatta a scuola praticamente finita e io, per il momento, non ho dovuto rispondere a domande difficili.
Se la fortuna dura, per quando tornerò a saltellare in gramaglie dietro la mia classe, bene o male, la questione sarà acqua passata. Bene, mi auguro, ovvero alla fine rigettata come indegna di una democrazia.
Perché se fosse passata “male”, invece, io “Lucia” non saprei proprio come guardarla in faccia.
Noi siamo i nessuno
vogliamo essere qualcuno
solo quando saremo morti
loro sapranno chi siamo...
