Oggi, finite le lezioni, ho camminato tranquilla fino a casa, leggendo un altro racconto di Peter Cameron, Paura della matematica, storia di una ragazza che acquista coscienza di sé e sicurezza riuscendo a superare un esame di analisi matematica. Ho pensato che sarebbe bello riprendere a studiare, confrontarsi con difficoltà superabili e poi essere valutati su un libretto con un numero soddisfacente accompagnato da una firma.
Poi ho pensato che avrei voluto scrivere di questo sul blog e mi sono preoccupata.
Quando ho iniziato il blog, in realtà, non ero pronta. Ero pronta a scrivere argomentando pensieri e considerazioni, a parlare di libri, a riflettere razionalmente sui processi della scrittura e della lettura. Ma non a parlare di me direttamente, a riflettere su di me ad alta voce, a cercare risposte ai miei dubbi in pubblico. Quando scrivo storie parlo di me, ovviamente, di ciò che credo e che sono, o che vorrei essere, perfino di ciò che ho paura di essere. Ma sulla pagina, sul monitor, tutto viene rivestito di parole, gli spigoli si smussano, le forme sfumano, punte e lame sono meno dolorose. Scrivere di me più direttamente mi è impossibile, probabilmente temo la mia vena teatrale, alla quale allento il guinzaglio soltanto quando insegno (un docente ha l'obbligo di recitare un po'). E detesto gli autori che si abbandonano alla teatralità, all'autobiografismo inconsapevole, perché sono convinta che chi lo fa va – metaforicamente – soltanto là dove è già stato, lungo strade che conosce bene, senza trovare sorprese. Quando rileggo ciò che ho scritto tolgo quasi sempre, difficilmente aggiungo, nella convinzione (che forse serve soprattutto a proteggermi) che non occorra rivelare troppo, che leggere sia un processo attivo e che il lettore deve prendersi la responsabilità di prestare alla storia le proprie esperienze, la propria sensibilità. Ma in questi mesi non scrivo, non ho nulla da togliere e molto poco da mettere, tengo fuori dalla scrittura una gran parte dei miei pensieri.
Il 2008 mi ha regalato una nuova dimestichezza con la fragilità umana, con la fine. Una questione di età, certamente, il momento in cui ti accorgi che i genitori invecchiano, si allontanano dal mondo attivo e dalla realtà, dimenticano e contemporaneamente si attaccano con più forza ai ricordi, e talvolta la comunicazione con loro si concentra sui gesti, le parole si perdono. I compagni, gli amici, si rivelano più vulnerabili, si conosce una nuova paura del cambiamento, che è negativo più spesso che in passato. E capita che per mesi sembri di essere in trincea, che la guerra non finisca mai, che quando il nemico sembra battuto si rialzi e ricominci a sparare. Sono mesi strani, bui ma solcati dalla luce abbagliante della consapevolezza, dalla scoperta folgorante di ciò che è superfluo e ciò che è veramente essenziale. Non senti la stanchezza, la necessità ti tiene in piedi, Alla domanda “la ferita ti fa male?”, potresti davvero rispondere “Soltanto quando rido”, tanto non hai mai voglia di ridere.
Poi, quando l'emergenza passa, e avresti occasione e tempo e voglia di ridere, ti rendi conto che ridere non vien più bene come prima. Ti consoli pensando che questa volta hai fatto le cose abbastanza bene, non hai perso troppo la testa, c'eri sempre quando ti chiamavano, non dimenticavi quasi niente. Eppure non è in tuo potere appianare le difficoltà, cancellare il malessere, la paura tua e di quelli che camminano con te.
Ci vuole tempo, immagini. Intanto sarebbe sufficiente sonnecchiare al sole su un muretto, come un gatto. Ma la maggior parte delle volte o piove o qualcuno ti obbliga a scendere dal muretto. Pazienza, tanto anche stando con gli occhi chiusi sotto il sole non riusciresti a portare il silenzio nella tua testa. E senza silenzio i pensieri diventano una giostra e non è possibile scrivere…
Però, oggi, ho camminato al sole leggendo la visione di un altro e mi sono stata bene. Probabilmente sono il genere di gatto che invece di sonnecchiare preferisce dar la caccia alle lucertole.
6 commenti:
Post meraviglioso, Silvia.
Talvolta mi chiedo se ciò che mi è capitato debba e possa essere compreso e assimilato come una spinta a raccontare anche ciò che non sono mai riuscito a dire o a scrivere. Se la confusione di pensieri e desideri non debba essere riflessa in qualche modo, raccontata, vissuta. Paradossalmente i "fallimenti", gli smarrimenti e le sconfitte dei personaggi dei miei racconti mi suonano adesso, ironicamente, come premonizioni, sogni o incubi. Al momento non posso scrivere di loro ma non posso nemmeno fare come se questo scontro sia stato casuale. Sono confuso, cara mia. Parlerei di me stesso se sapessi chi sono. Chi sono adesso. Ma non lo so.
Urge un commento, uno qualunque. Che ne so, qualcosa del tipo "Ehi, ti leggo sempre, anche se non scrivo. E leggo sempre Max, anche se sto zitto". Ma forse non dice niente. troppo diretto. Allora potrei dire "Caccia alle lucertole, Silvia? Guarda che le lucertole amano il sole, hanno la luce nel nome, un gatto che le caccia ama lo stesso il sole". Ma vuol dire qualcosa, o è solo un gioco di parole?
Non lo so. Tu e Max state usando i blog come sonde, e per qualche strana alchimia le sonde che vi infilate dentor per esplorarvi esplorano anche chi vi legge. Ma non è detto che chi vi legge possa rispondere qualcosa, a parte fare da eco alle vostre domande.
Sapete la cosa che mi ha più colpito dell'11 Settembre? Il modo in cui gli aeroplani entravano nelle torri: coltelli roventi nel burro, entra un solido grigio da una parte, esce una palla rossa e fluida dall'altra. Io credevo che l'aereo si sarebbe accartocciato, contorto, e poi caduto ai piedi del grattacielo. Come nei film; e invece no, era tutto diverso, nella realtà.
Ho cinquant'anni, speranza e intenzione di viverne ancora un bel po', e però già vedo la vita in maniera diversa. Non è come credevo che fosse. Neanche l'avvicinarsi alla fine, alla morte, al caro vecchio e solido Nulla è come credevo. Come l'aereo e le torri, mi sa che pensavo alla vita come fosse nota, chiara, razionale. E invece no, sorprende. Sorprende, spaventa, mi spavento.
Non è come nei film.
Ma, cazzo, questo non significa che sia peggiore.
E' diversa, e noi non ne sappiamo ancora niente. Questa parte di vita che ancora ci aspetta rischia di essere misteriosa e inconoscibile come quella passata, solo che forse rischiamo adesso di esserne consapevoli.
Se io riuscissi a non avere paura, sospetto che riuscirei a divertirmi molto, a viverla.
grazie Fran, Max e Piotr.
Sì, sto cercando di usare il blog come una sonda, sapere di non essere sola (di avere un pubblico) mi spaventa ma mi spinge anche a farlo e a cercare di farlo bene.
Piotr, hai colto perfettamente l'eco di quello che volevo dire. Anch'io sono rimasta ossessionata dall'immagine dell'aereo. "non può essere così, è tutto sbagliato". Invece ero io a sbagliare.
Ho paura di continuare a camminare per questa strada che è la vita, ma sono anche molto curiosa. Se tengo a bada la paura che mi freghi al prossimo angolo (e che la fregatura non sia una fine pulita e rapida, ma una mezza esistenza) potrei davvero divertirmi.
Ci vediamo lungo la strada...
"Sì, sto cercando di usare il blog come una sonda, sapere di non essere sola (di avere un pubblico)"
Eccomi!
Ciao!!
Ciao Marilde, benvenuta.
Io sono una bloggista incostante e molto indaffarata, come puoi vedere dalle date dei miei post, ma sono molto contenta che tu sia arrivata. Spero di riuscire a scrivere un po' più spesso, visto che da giovedì sono in (piccola) vacanza.
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