In particolare mi ha fatto molto riflettere una domanda di Barbara Bassino (autrice tra l’altro di un racconto sul penultimo Fata Morgana): “Quando l’autore di un racconto fantastico ha raggiunto il finale?” Ovvero, quando il racconto in questione è davvero finito?
Naturalmente la domanda è adeguata ad ogni tipo di narrativa – romanzo e novella, oltre che racconto - di genere o meno. Ma in alcuni casi rispondere è più facile; banalizzando, per il poliziesco si potrebbe dire: “quando l’indagine è terminata e il caso è risolto” e per il romanzo rosa “quando si è giunti ad un soddisfacente happy end”; per il falso racconto fantastico: “quando ciò che appariva soprannaturale è stato spiegato” ecc. Il racconto o il romanzo fantastico, invece, devono restare in bilico tra possibile e impossibile, devono cioè mantenere aperta fino in fondo la frattura del reale, insomma devono mantenersi sul crinale, pena lo scivolamento verso uno dei pendii: meraviglioso o spiegazione razionale.
Seconda riflessione: Ammesso che sia possibile, esiste una ricetta?
Max ha tentato una risposta, io ho provato a indicare un percorso (seminare il sentiero di vie traverse, socchiudere molte porte) e ancora Max, messo alle strette da Consolata, è tornato sull’argomento suggerendo che il finale deve rispettare/rispecchiare la complessità del mondo. Sono d’accordo e credo che la sua affermazione si possa tradurre così: Per ogni storia esistono un gran numero di finali insensati/impossibili/inopportuni (nell’esempio di Max, A e B diventano amici e A sposa la sorella di B, ad esempio) e non più di due o tre finali appropriati. Di questi uno o forse due sono in discesa, non necessariamente banali, forse anche “sorprendenti”, ma non illuminanti, più o meno i finali che un lettore di lungo corso avrebbe immaginato. Poi esiste “il” finale, quello disvelatore: che spinge chi legge a chiedersi “ma come…?” e di seguito a riflettere: “però…” e che rimane dentro a lungo, sfidando a rivoltarlo come un calzino, a continuare a scavare. Esattamente come accade nella vita reale.
Terza riflessione Il problema posto da Barbara e da Consolata, però, ha anche un’altra dimensione, più tecnica e contemporaneamente più onirica . Quando e come chi scrive riconosce “il” finale?
Posta così la questione diventa molto più personale, qualcosa di più ampio e più scivoloso delal scelta di un finale non ovvio. Posso soltanto provare a schematizzare come mi pare che funzioni per me.
1) l’inizio del racconto scaturisce da una collisione (come già diceva Max a Barbara), dall’intreccio di almeno due elementi: una situazione, un luogo o un’atmosfera e uno stato d’animo, un’emozione contraddittoria. Il mio esempio a Barbara è stato l’inizio del racconto che sto scrivendo per Alia: c’è un cunicolo, un “buco” nella roccia e il mio fascino/orrore per i buchi. Perché mai devo (il personaggio deve) stare in quel cunicolo?
2) La storia prosegue in maniera razionale (si tratta di una miniera dove si estrae… aiutato da… verso il quale prova… La trama nasce mano a mano – per i racconti non uso vere e proprie scalette – suggerendo strade traverse e illuminando porte socchiuse che sul momento non saprei spiegare perché inserisco ma che ho imparato a lasciare perché alla fine mi serviranno (almeno alcune, le altre dovrò tornare indietro a cancellarle) e con alcuni innesti “visionari”. Non di rado a guidarmi sono le parole e il loro suono; l’uso di un word processor invece di rendere meno libera la mia scrittura mi consente di provare molti accostamenti.
3) Il finale. In Il cervello lepre e la mente tartaruga, Guy Claxton sostiene con appoggiandosi a doviziosa documentazione scientifica che oltre al cervello razionale possediamo una submente profonda (che è anche ma non soltanto l’inconscio) che riflette sul mondo con modalità non soltanto di problem solving ma mediante analogie, integrando quelli che il cervello definirebbe “dati insufficienti” in sintesi fulminanti. Come farebbe un poeta, in un certo senso. E’ dalla submente che salgono intuizioni, soluzioni originali, creazioni artistiche, illuminazioni. Naturalmente una volta “salite” vanno riconosciute razionalmente, vagliate dal senso critico, spiegate con il linguaggio. Molti intervistati da Claxton hanno descritto questa modalità di conoscenza come una “bolla che emerge dal profondo” e che scoppia in superficie. Il paragone mi calza a meraviglia: il mio finale sale come una bolla. A volte la bolla non scoppia, a volte è una bollicina stupida… Ma, prima o poi, il finale emerge, devo soltanto aspettare.
Detta così, sembra una via di mezzo fra la ricetta della nonna e una formula magica, ma sarei curiosa di sapere se qualcuno si riconosce nella mia descrizione…

La foto in chiusura... beh ho scritto il post ascoltando la sua musica, come potevo non citarlo?