… il solarpunk si fa interprete di sentimenti e istanze attualissime e utili a un progresso collettivo, organico, equo, ecologico, inclusivo; si esplicita in un comparto visuale che va oltre la mera suggestione estetica; fin dai suoi inizi esprime una visione politica complessa e aperta a vari contributi, ma chiara.
È un genere, insomma, che potrebbe essere un movimento: potrebbe aiutarci non solo a immaginare un futuro migliore, ma anche a costruire strategie operative per avvicinarci a tali visioni condivise.
Quando sono stata invitata a partecipare all’antologia ho pensato: “Io non sono ottimista, magari nutro qualche speranza sul futuro ma NON sono ottimista”.
Però sono curiosa e soprattutto ritengo decoroso fare del mio meglio. Fino a che ci sarà spazio per dire “questo mondo non mi piace, ne voglio uno diverso” io continuerò a farlo. Quindi eccomi qui.
Per il resto non cercavo (e forse ancora non cerco) un’etichetta per il mio pensiero e la mia scrittura.
In sostanza, diversamente da chi prima ha scelto il pensiero solarpunk, cioè si è schierato, e poi ha letto e scritto, io – condividendone la visione generale, chiamiamola “ecopolitica”, – ho scritto e solo dopo mi sono chiesta “ma io ho bisogno del solarpunk, sono convinta che il solarpunk possa davvero fare la differenza?”
Questo intervento è il risultato di una esplorazione condotta a mente fredda, di una scorpacciata di articoli e post, di un gioco di rimbalzo tra dichiarazioni, note e citazioni. È servito a chiarirmi le idee e a prendere le misure, a mettere in evidenza nodi interessanti del solarpunk e aspetti che, a mio parere, potrebbero essere esplorati da chi scrive solarpunk. È un materiale grezzo, che sarei contenta di condividere e che ha la sola pretesa di essere discusso. Scrivendo, inizialmente ho cercato di tenere separato l’aspetto puramente narrativo di questo “genere”, dalle tematiche più ampie del movimento ma confesso di non esserci riuscita per almeno due motivi:
1. Il solarpunk ha una base ideologica e progettuale che va oltre, e semmai precede, la narrativa, ma poiché esplora il futuro, lo prefigura e in qualche modo vuole plasmarlo, ha bisogno di un immaginario narrativo. Parallelamente, a chiunque voglia portare un contributo critico, quell’immaginario è indispensabile.
2. Io ho avvicinato il solarpunk scrivendo e leggendo, quindi forse la cosa migliore è tenere tutto insieme.
Wooden Orchids, Vincent Callebaut Architectures |
I miei punti di partenza
1. Non sono nemica della narrativa distopica, semmai ne constato il possibile appiattirsi su temi frusti e il rischio per chi ne scrive di trovare esattamente ciò che già sapeva (e che ormai danno per scontato in tanti)
2. Ritengo che nell’ambito di questa riflessione sostantivi come pessimismo (distopico) e ottimismo (solarpunk) siano limitanti e possibili fonti di equivoci. Contrapporli uno all’altro mi pare sterile (a meno di non fare molte, molte precisazioni…) e non credo di essere l’unica a pensarlo. L’unico modo in cui li ritengo utili, a essere onesta, è nell’accostamento proposto da Romain Rolland e reso celebre da Antonio Gramsci: «pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà».
3. Il termine che mi pare più adatto a caratterizzare il solarpunk speculativo (cioè quello non didascalico né – ammesso che esista – forzatamente “gioioso”) è realismo. E questo chiedo al solarpunk: di essere realista.
È crudo realismo partire dall’assunto che le energie rinnovabili e una gestione sostenibile siano l’unica soluzione possibile di fronte alla crisi climatica, così come è realismo individuare nel modello di produzione figlio delle rivoluzioni industriali il colpevole principale della crisi climatica, nonché dell’impoverimento tragico dell’ambiente e della maggioranza degli abitanti che ci vivono: negli ultimi due secoli siamo davvero vissuti nel capitalocene, guidati, cioè (ma forse farei meglio a dire «posseduti») dal Realismo capitalista2.
Dubbi e domande scomode
Molti tirano un sospiro di sollievo alla prospettiva di leggere, scrivere e identificarsi con un tipo di pensiero non distopico, altri (me compresa) si impuntano e dicono «aspetta un attimo!». Può darsi che la distopia intossichi (un aspetto su cui occorrerà tornare). Ma per questa cautela forse ci sono altri motivi:
A. Il rifiuto, assolutamente condivisibile, della «narrativa a tesi»: ho delle idee chiare in testa, scrivo per convincerti e quindi conduco la mia storia su binari che già conosco, invece di esplorare il mio scenario e sorprendere anche me. A essere onesta, i coautori di Assalto al sole (come anche Francesco Verso con i suoi due romanzi I camminatori) hanno dimostrato che il solarpunk nostrano è in grado di produrre testi di spessore, originalità e punti di vista variegati, e non tesi precostituite.
B. Il contrario di «distopia», almeno apparentemente, è «utopia», un sostantivo che il solarpunk rivendica. A molti, però (me compresa), le utopie fanno paura: nel secolo breve e anche prima se ne sono già viste troppe naufragare diventando rigido pensiero unico.
Leggendo qua e là, comunque, ho trovato questa frase abbastanza convincente:
Io vedo le utopie come intensamente pratiche, in realtà come pratiche portate agli estremi3.
Pratiche portate agli estremi… Promette bene, devo ammetterlo.
C. Io però stavo cercando risposte convincenti a una domanda emersa qua e là durante le presentazioni di Assalto al Sole e altre discussioni online: ma c’è proprio bisogno del solarpunk? Non ci sono già altri movimenti impegnati e creativi in circolazione?
Anche Jennifer Hamilton, docente di Climate Fiction all’Università di Sidney, si è fatta una domanda simile, chiara nella sua provocatoria ridondanza (perdonate gli * della traduzione), e si è data qualche risposta.
La domanda che mi rimane in tutto questo è “cosa differenzia un* solarpunk da un* ecosessuale, o una ecofemminista tecnopagana, o un* eco-afrofuturista o anche un* permaculturista? O, anche, da altri movimenti utopistici vestiti in modo colorato e politicamente orientati?4
… l'attenzione al cambiamento culturale che necessariamente accompagnerà la piena transizione alle energie rinnovabili è la caratteristica distintiva di solarpunk.Questo è ciò che trovo profondamente convincente nella sottocultura [solarpunk]. Di solito ci chiediamo “le rinnovabili possono sostituire i combustibili fossili?”. Si tratta di una questione importante, ma non affronta i legami tra cultura ed energia. Così invece i solarpunk chiedono “che tipo di mondo emergerà quando finalmente passeremo alle rinnovabili?4
Ossia?
Ecco, seguendo il link contenuto nella risposta, come ho fatto io, scoprirete un corposo libro intitolato Living Oil: Petroleum Culture in the American Century, di Stephanie LeMenager. Un libro che studia i legami complessi, e non tutti ovvi, tra il petrolio, i nostri stili di vita e la cultura occidentale ma in particolare americana: il petrolio ha portato il mondo nell’età moderna.
Siamo dipendenti dal petrolio ma anche dalla visione della natura come nostro possesso che le energie fossili ci hanno permesso di coltivare. Un brutto modo di pensare, naturalmente, ma difficile da sradicare. Comprenderlo, cercare di sostituire questa cultura sporca con una cultura sostenibile da tutti e dal pianeta è una bella sfida.
Auguriamoci che il solarpunk sia all’altezza.
Ora posso finalmente continuare.
Questioni da approfondire
I. Locale o globale?
… il Solarpunk punta a trasformare la fantascienza in azione scientifica. Una emergente sensibilità estetica sostiene e guida questo impulso. Come stile di un genere la rappresentazione visuale Solarpunk è distintamente architettonica e infrastrutturale: nonostante molti blogger enfatizzino l’importanza del “locale” è necessariamente globale nella concezione3.
Non è una questione da poco. Nonostante l’esplorazione narrativa dei solarpunk possa (e spesso debba) cominciare su scala locale, resta inteso che il pianeta deve salvarsi tutto insieme o non si salverà. Come ha scritto Luka Kremo:
tornando ai generi e alla “letteratura del futuro”, è necessario quindi che il solarpunk non rimanga uno sterile esercizio di “immaginazione ottimista”, ma che contenga le problematiche dei molteplici rapporti che noi abbiamo con il mondo, con i parassiti, i batteri, i virus e tutti i biomi che ci circondano. Di più: ridefinire il “noi” oltre l’essere umano, e intenderlo come intero sistema biologico, come olobioma5
II. Ecosostenibili. Ma come?
Questo tema mi è sembrato del tutto ovvio – l’UE, ad esempio, ne sta parlando tantissimo e stanzia fondi cospicui per costruire un futuro ecosostenibile… – fino a quando, leggendo qua e là in rete, non mi sono imbattuta in un articolo6 che mi ha dato molto da pensare.
L’autore osserva:
la sostenibilità viene sentita ancora spesso come un argomento amorfo discusso per lo più in vaghe dichiarazioni. È come la pace o la speranza. Tutti la vogliono, ma nessuno sa davvero che aspetto abbia.
E pensare che la prima definizione di ecosostenibilità risale al 1987:
Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa le esigenze del presente, senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze.
Un capolavoro di ambiguità, vero? A quali esigenze si riferisce? Chi prova queste esigenze nel presente? Dove vive? E quali sarebbero le generazioni future? In quale tempo e luogo?
Eolico al tramonto |
Una lettura istruttiva, questo articolo, che invita a farsi domande specifiche:
Stiamo parlando di sostenibilità per gli umani, gli animali, le piante e/o altri sistemi naturali? Se gli esseri umani stanno vivendo “stili di vita più sostenibili” mentre il tasso di estinzione per le piante e gli animali continua la sua traiettoria verso l'alto, possiamo chiamarlo un successo?
Facciamoci una domanda banale: «quando un concessionario di automobili ritira il nostro usato vecchio e inquinante, dova lo smaltisce?» A quanto pare, alla fine di molti passaggi, l’auto NON viene rottamata ma allontanata dalla scena. Inviata in aree del mondo nelle quali anche un vecchio arnese inquinante possa essere ancora interessante. Ad esempio? Coraggio, osate: L’AFRICA! [dalla rivista Africa]
Già. La medesima Africa dove smaltiamo La plastica e le componenti dei cellulari e altri rifiuti RAEE.
Ora, quanto sarà facile
convincere gli zelanti "smaltitori" della vecchia Europa, degli Stati Uniti e del Giappone a convertirsi alla sostenibilità globale? Quanti altri esempi di questo genere si potrebbero fare? Chi controllerà i fautori della green economy affinché le energie rinnovabili vengano utilizzate ovunque?
Non negherete che questi siano temi interessanti per chi voglia scrivere storie solarpunk…
Art Nouveau: The Royal Greenhouses of Laeken, by Alphonse Balat |
III. Luce in fondo al tunnel? Forse no
Anche con tutta la buona volontà del mondo i solarpunk potrebbero non riuscire a vincere. Questo paragrafo è dedicato ai possibili fallimenti del movimento solarpunk, così come vengono indicati da Andrew Dana Hudson7; li riassumo alla spicciolata, ma occorre rifletterci, svilupparli, esplorarli narrativamente:
1. Non riusciremo a imporre scelte sostenibili.
2. Piano piano taglieremo le emissioni di CO2, ma senza cambiare il rapporto degenere con la natura, e senza intraprendere grandi progetti per paura dei costi e delle conseguenze. Tutto procederà come ora: incidenti, sversamenti, contaminazioni, estinzioni ed epidemie. Continueremo a dover correre al soccorso, alla bonifica, al contenimento…
3. Costruiremo città modello, cattedrali nel deserto simbolo della nostra buona volontà, ma inabitabili per i cittadini comuni (non sarebbe la prima volta).
Brasilia, sogno degli utopisti, l’urbanistica realizzata sul nulla degli altipiani. |
4. Realizzeremo un solarpunk per pochi, lasciando che il capitalismo continui a dettare la distribuzione delle tecnologie sostenibili.
IV. Possibili rischi per il solarpunk
Un tempo il cyberpunk è stato alimentato da una forte spinta anticapitalista e libertaria. Come dice giustamente Franco Ricciardiello nell’introduzione di Assalto al Sole, non dobbiamo vergognarci del nostro periodo cyberpunk. Forse, però dovremmo chiederci tutti come sia andato a finire. Se ne sono impadronite le Major, le serie TV, la ripetizione continua degli stessi temi. Pensate a quanto hanno “rubato” dall’estetica cyberpunk, fino a ridurlo a un’etichetta, distopica e ormai avulsa dal futuro immaginato dai cyberpunk negli anni Ottanta:
L’iconico creatore di giochi Mike Pondsmith viene spesso accreditato di aver creato l’estetica cyberpunk: Nel 2020 così tanta gente ha cominciato ad affermare che il suo lavoro sta prendendo vita che ha rilasciato una dichiarazione ricordando alla gente che la sua estetica era stata un “avvertimento”, non qualcosa a cui aspirare8.
e anche
Questo [la prevalenza della distopia], si potrebbe sostenere, è perché scenari apocalittici sono più facili da dipingere di utopie realistiche. Ma poiché il 2020 ha iniziato ad apparire sempre più come una sesta stagione di Black Mirror, il creatore della serie iconica, Charlie Brooker, ha detto che si stava prendendo una pausa dalle proprie distopie immaginarie8.
Ma, soprattutto:
Nel mondo del commercio di materie prime. Acquirenti e venditori le dividono in tre diverse categorie. Materie prime crude come il denaro, materie prime dure come il petrolio e l'acciaio, materie prime morbide come il grano e la frutta. Vorrei suggerire che proprio ora nel nostro panorama mediatico globale ne abbiamo una quarta. Materie prime narrative, o mediatiche9
Ed è proprio in questa quarta categoria che dobbiamo esaminare il ruolo del Solarpunk, secondo Jay Springett:
La nostra attuale cultura popolare sembra incapace di elaborare o di affrontare la portata della crisi che stiamo affrontando9.
Ecco perché abbiamo bisogno di pensare nuovi futuri, dice Springett, e di farlo insieme.
La sorte di diventare una etichetta, avulsa dal movimento libertario che in questo stesso momento lo sta creando, potrebbe accadere anche al variegato, promettente movimento solarpunk? Secondo Elvia Wilk4 e altri autori sì.
Guerrilla Gardening Lavender Fields |
L’addomesticamento del solarpunk è una possibilità concreta: più lo renderemo “ortodosso”, ridotto a pura estetica, più facile sarà svuotarlo dall’interno. Pensate a quanta pubblicità già ora si è appropriata di temi quali sostenibilità, green economy ecc. Il problema è che senza questo passaggio, senza che la produzione capitalista si sposti verso la sostenibilità fiutando un buon affare, il solarpunk non potrà vincere. Questa è la dimensione politica del solapunk, doversi sporcare le mani. È così, ed è ovvio, ma occorre stare in guardia.
È possibile che un passaggio alle rinnovabili segnerà la fine del capitalismo; che le forme alternative di energia non siano compatibili con il graal del capitale di profitto e crescita – Ma dove c'è una volontà capitalista di solito c'è una via capitalista. La necessità della transizione energetica ci fornisce un momento storico di crisi. Ideologie opposte lottano sul futuro non solo dell'energia, ma della società. Il punto è meno che le energie rinnovabili equivalgano automaticamente a una società più giusta, e più che i massicci cambiamenti infrastrutturali futuri forniscano una leva per istituire qualcosa di meglio10.
Secondo Springett, ma anche secondo Wilk, la possibilità che il solarpunk (e Terra) si salvi ci sono, perché il movimento è sfaccettato e si evolve proprio mentre cresce:
Qualcosa che è più di un semplice genere. È un movimento che sta cercando di costruire una nuova idea del futuro. Tuttavia, ha bordi sfocati e permette a chiunque di giocare al suo interno9.
V. Varie ed eventuali sul solarpunk come genere narrativo
La narrativa è, come la realtà, una visione molteplice e variegata, che non può evitare le contrapposizioni ma, nella migliore delle ipotesi, riesce a superarle: i punti di vista e le valutazioni si mescolano, ciò che prima pareva “buono” ora non lo è più, e viceversa, le aspettative si rovesciano, le emozioni si stemperano a trascolorano. L’impossibilità di una riconciliazione piano piano lascia il posto a una mediazione necessaria (NON a un compromesso inaccettabile).
Come ottimismo e pessimismo, utopia e distopia non sono davvero mutualmente esclusivi. Essi sono eternamente coesistenti come due facce della stessa medaglia, sempre minacciando di capovolgersi. […] Ecco perché, se l'obiettivo dei solarpunk è di colmare il divario di plausibilità, la positività non è necessariamente il punto4.
Il
dubbio e
la critica sono essenziali, così come il mantenere tutte le
sfumature e le aperture possibili. Non ci servono nuove ortodossie. All’ipotesi che la distopia intossichi,
Springett risponde sì, perché la
nostra attuale cultura popolare non riesce (e non vuole) esplorare
nuovi futuri: dopo essersi appropriata dell’immaginario passato,
continua a rovistarlo e ad appiccicarne i pezzi insieme.
La distopia, quindi, è "cattiva” solo se è banalizzante e/o se vuole far passare il
messaggio che è meglio accontentarsi del presente, perché potrebbe
anche andare peggio.
Urban Farming: Growroom |
Anche
Wilk mette riflette sulla distopia, citando Jill Lepore:
La distopia è depoliticizzata quando è lasciata come una controfigura per la critica, in grado di essere cooptata verso qualsiasi scopo ideologico. La distopia fa appello sia alla sinistra che alla destra, perché, alla fine, richiede così poco per mezzo dell'immaginazione letteraria, politica o morale, chiedendo solo che godiate della compagnia di persone la cui paura del futuro si allinea comodamente con la vostra4.
Come tutta la buona narrativa, e come in definitiva tutto il genere fantastico, il solarpunk conduce esperimenti sociali, politici, scientifici, in vitro: che cosa succederebbe se…? Per farlo in maniera utile (utile a pensare, a suggerire visioni, riflessioni) non deve essere incasellato in qualche definizione troppo stretta. Occorre sopportare il dubbio, essere soddisfatti che il solarpunk, anche dal punto di vista narrativo, sia qualcosa di indefinibile, sfrangiato, un’aura più che un genere consolidato, e che elementi apparentemente contrastanti come l’ottimismo e il suo contrario, più un po’ di scetticismo e di ironia convivano nella medesima narrazione.
VI. Lavorare da solarpunk
Nel capitalismo il lavoro è la definizione pubblica di ognuno di noi. E il capitalocene non ci addestra solo a lavorare, ma anche a consumare… In un mondo diverso, non più vincolati dal ricatto a consumare, a spolpare il pianeta, chi saremo?
Sebbene
la narrativa solarpunk esplori
non di rado questo tema11,
il lavoro, come attività inserita nel contesto politico ed
economico di un mondo globale (e non intendo globalizzato in
senso capitalista) non
è ancora affrontato in maniera soddisfacente. Se ne rivendica la
dignità e si rifiuta, com’è ovvio, la schiavitù di sgobbare per
arricchire i “megaricchi”:
Nello scenario solarpunk, una “economia dei beni comuni” farebbe a meno delle società di speculazione e della pianificazione centrale statalista a favore delle cooperative gestite dai lavoratori, delle reti di scambio collaborativo, dei pool delle risorse comuni e del controllo degli investimenti da parte delle comunità locali. L’obiettivo dell’economia sarebbe riorientato dalla “produzione” allo scambio, dalla “crescita” industriale alla produzione per l’uso e dall’aumento del benessere psico-sociale delle persone e del pianeta. La produzione verrebbe spostata il più vicino possibile al punto di consumo, con l’obiettivo a lungo termine di una relativa autosufficienza nei beni e nella produzione. Le forme decentrate di eco-tecnologia verrebbero utilizzate per rendere il lavoro più partecipativo e piacevole – artigianalizzando il processo produttivo stesso – così come l’automatizzazione delle forme di lavoro noiose, sporche e pericolose ovunque sia possibile12.
Però
continuo a chiedermi come, nel nostro mondo
ancora dominato dal Realismo capitalista, ma anche pieno di
infrastrutture
(compresi i trasporti e
la distribuzione, tutto
ciò che garantisce quel poco o tanto di welfare, la manutenzione delle strade…) possa avvenire la
transizione. È
difficile essere solarpunk in un mondo globalizzato. D'altra parte scrivere storie serve anche a questo: suggerire idee.
Un'altra questione che merita ogni attenzione da parte di chi voglia “scrivere” un futuro diverso.
Park Royal Tower a Singapore |
VII. Estetica solarpunk
Aggiungo un tema che rischia di essere un po’ banalizzato dall’iconografia solarpunk ma che invece merita assoluta attenzione: l’architettura del futuro. Come saranno le città ecosostenibili di domani? E cosa fare di quelle non ecosostenibili di oggi? Sognare città solarpunk credo sia altrettanto importante che rifiutare periferie «capitaloceniche». Le immagini accattivanti di Thumblr e Pinterest, tuttavia, non suggeriscono nulla a proposito del passaggio dalle une alle altre. Non è compito dei narratori scendere nei particolari, ovviamente, ma aver presente che sarà un passaggio complesso e difficile e lasciarlo almeno intuire sì.
Per una prima ricognizione nell’estetica solarpunk, e su come l’estetica si leghi alla dimensione politica e sociale, consiglio un interessante articolo13 da cui traggo questa citazione:
Il solarpunk ambisce a essere un movimento di rigenerazione del reale capace di produrre soluzioni alle sfide che definiscono la nostra epoca: invecchiamento della popolazione, crescente urbanizzazione e cambiamento climatico. Nel farlo, esprime un’attitudine al recupero di tecnologie cadute in disuso e alla loro integrazione con altre più contemporanee, oltre che a una più generale armonizzazione di tecnologia e natura. Tratti che vengono recuperati anche dalla complessa estetica espressa dal movimento. Potremmo affermare, se ne volessimo definire gli estremi, che essa si colloca in uno spettro visivo compreso tra espliciti richiami all’art nouveau e riferimenti diretti al più contemporaneo design biofilico.
Vegetal city di Luc Schuiten |
Bene, qui ho finito. Se avete resistito finora avete l'anima e la volontà – o almeno la curiosità – di chi potrebbe davvero contribuire a cambiare il mondo.
Così vi lascio con due citazioni che, non a caso, insistono sul sul termine "interdipendenza". La prima è di Will Hutton:
Oggi una forma di globalizzazione senza regole del libero mercato, con la sua propensione per crisi e pandemie, sta morendo. Però ne sta nascendo un’altra, che riconosce l’interdipendenza e il primato dell’azione collettiva basata sull’evidenza dei fatti.14
L'altra è di Giulia Abbate15. Parla, almeno così l'ho capita io, di un mito ormai da archiviare e della necessità di riconoscere la rete di rapporti e connessioni che ci lega gli uni agli altri – passato, presente e possibili futuri – e a tutta la vita del pianeta. La cito male e me ne scuso, sperando che voglia riscriverla per me.
È puerile insistere sull'indipendenza a scapito dell'interdipendenza.
Bibliografia
1. Solarpunk: l'utopia che vuole esistere, Giulia Abbate e Romina Braggion (a cura di), Zest Letteratura sostenibile
2. Realismo capitalista, Mark Fisher, Nero, «not», 2018 (trad. V. Mattioli)
3. Mckenzie Wark in Is Ornamenting Solar Panels a Crime?, Elvia Wilk, e-flux architecture
4. Explainer: ‘solarpunk’, or how to be an optimistic radical Jennifer Hamilton, in The Conversation 19 luglio 2017
5. Chthulupunk, sottogenere del solarpunk? Lucka Kremo in Nazione oscura caotica
6. OPINION: What does a sustainable future actually look like? If sustainability is going to succeed, it’s time to talk specifics. Todd Reubold in ensia.com, 18 febbraio 2014
7. Sulle dimensioni politiche del Solarpunk di Andrew Dana Hudson in AA.VV., Solarpunk. Come ho imparato ad amare il futuro, Collana Future Fiction n. 80, Future Fiction. https://
8. Solarpunk Is Growing a Gorgeous New World in the Cracks of the Old One Carin Ism and Julien Leyre in SingularityHub 06 settembre 2020
9. https://www.thejaymo.net/solarpunk-rusted-chrome/
10. Rhys Williams cit. in 9
11. vedi recensione di D. Gallo ai racconti del volume cit. in 7
12. https://civiltascomparse.wordpress.com/2019/03/22/cose-il-solarpunk-e-i-suoi-diversi-aspetti/
13.www.domusweb.it/it/architettura/gallery/2020/09/16/le-architetture-utopiche-del-solarpunk-.html
14. Un nuovo comunismo può salvarci, Slavoj Zizek, in Internazionale 1349, 13 marzo 2020
15. Seminario FUTURE STORYTELLING E COMUNICAZIONE SOCIALE presso Collegio ICM, Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione, 14 novembre 2020, evento VC
2 commenti:
Davvero un bell'articolo, molto approfondito. Ce n'era bisogno
grazie Giovanna! Penso di aver toccato forse troppi argomenti tutti insieme, d'altra parte il solarpunk ha talmente tante diramazioni, tutte estremamente interessanti... Considerando che si propone 1 di essere un movimento, oltre che un "genere", 2 di agire facendo pressione, suggerendo e offrendo idee ad una azione collettiva, sarebbe importante approfondirne punti di forza e limiti. Insomma c'è tanto su cui discutere, e sarebbe bello che a farlo fossero proprio esponenti della narrativa di speculazione, non necessariamente già "coinvolti" con il solarpunk, in grado comunque di offrire un occhio allenato alle visioni dei futuri possibili.
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