mercoledì 28 gennaio 2009

I libri tristi dicono così tanto...

Ho appena terminato di leggere Sunset Limited, un breve dramma di Cormac McCarthy.

Svolta in forma teatrale, la vicenda si svolge nella stanza di un caseggiato popolare di New York: quartiere povero, appartamento povero, chiavistelli ovunque perché i vicini sono variamente dipendenti da alcool e droghe e arraffano tutto ciò che possono per tirar su due soldi. Sedute al tavolo di cucina due persone dialogano; di loro sappiamo soltanto l’essenziale. Bianco uno, nero l’altro. Il primo professore e ateo, il secondo ex galeotto illuminato da Dio. La loro conoscenza è recentissima: poco prima il nero ha agguantato il bianco mentre si lanciava sotto le ruote del Sunset Limited, un treno per pendolari; se l’è portato a casa e sta cercando di salvarlo. Per convincere il bianco a desistere dai suoi propositi il nero vede un solo modo: avvicinarlo a Dio. Il dialogo è uno scontro pacato fra due visioni del mondo. Ho cominciato la lettura spinta dalla curiosità che provo sempre verso una narrativa tanto ambiziosa da volersi confrontare con simili assoluti. Se scrivere storie significa soprattutto seminare dubbi, farlo facendo collidere la relatività del reale con la visione assoluta di un vero ateo e/o di un credente è un’impresa che, se condotta in maniera rigorosa, può approdare a risultati grandiosi; un nome per tutti: il Dostoevskij del Grande Inquisitore. Probabilmente, però, parte di questa propensione mi viene dall’educazione: ateo convinto (con una forte vena mistica) lui e sostanzialmente agnostica lei, i miei genitori scelsero di iscrivermi a una scuola religiosa: il mio apprendistato «strabico» al mondo è tra le cose più preziose che ho.

Come se la cava McCarthy nella grande sfida? Da dio, verrebbe voglia di rispondere. Intanto si tiene ben lontano dalle ovvietà: il nero non è un fanatico, le sue opinioni sul mondo e su Dio sono assai eterodosse e farebbero sussultare più di un uomo di chiesa; soprattutto non è un’anima candida, guarda il mondo dal basso e senza illusioni, semplicemente lo accetta con una profondità di sguardo che forse manca al suo interlocutore. Animati entrambi dall’onestà e dalla passione di McCarthy, i due duellano in punta di fioretto, senza animosità, con stima. Se non riescono a incontrarsi a mezza strada è solo perché le loro posizioni sono mutamente esclusive: o l’ordine forse non comprensibile del disegno divino o l’entropia senza scopo.

Leggendo le prime pagine nutrivo la recondita convinzione di stare dalla parte del professore: se interrogata su Dio, darei la medesima risposta data da Laplace a Napoleone: «non mi serve questa ipotesi, maestà». Inoltre ritengo lo zelo missionario pericoloso (di qualunque colore religioso politico sia) e detesto chi vuole salvarmi mio malgrado. Invece, a sorpresa, non mi ha convinto nemmeno il professore, nonostante il fascino del suo nichilismo. Il mondo visto con i suoi occhi pare sbiadito e privo di profondità; che non ami i suoi simili non è un problema (amarli non è certo un obbligo) ma gli manca la curiosità, non riesce più a percepire la natura umana che tutti ci accomuna. Non è simpatico, questo professore, anche se la sua dialettica è incisiva e la sua amarezza comprensibile, in parte condivisibile.

Al di là dell'interesse che suscita il "duello" tra i personaggi di Sunset Limited, magnificamente condotto dall'autore, il testo mi ha spinto a interrogarmi su quale legame intercorra tra chi scrive e le persone che incontra per strada, non i famigliari, gli amici, i conoscenti più stretti, ma la gente, intesa come categoria generale. Un rapporto di parassitismo (ti osservo mi approprio dei tuoi gesti, delle emozioni che immagino stiano dietro i gesti ecc.)? Una genuina curiosità? Una forma di solidarietà a distanza, che è possibile vivere in sicurezza, senza essere direttamente coinvolti? Un esperimento in corpore vili?

Mi accorgo che anche il post precedente, in fondo, ruotava sempre intorno alla medesima domanda: perché (de)scrivere? Probabilmente mi accade perché nelle ultime settimane – oltre a condurre in porto il racconto per Fata Morgana 12 – ho soprattutto letto e riletto gli altri racconti di Fata, e li ho letti per lavoro, correggendo le bozze e impaginando, insomma cercando il pelo nell'uovo. Un lavoro che non è affatto arido quanto può sembrare e che, oltre all'occasione di studiare diverse tecniche e modalità di scrittura, mi offre la possibilità di vedere la gente con altri occhi, ma in maniera finalizzata, stando in guardia, diciamo, invece di abbandonarmi alla lettura come farei leggendo testi pubblicati da altri. Così a ogni pagina mi chiedevo: il gesto descritto, è proprio "autentico"? È così che si comporta la maggior parte della gente? Ma esiste una maggior parte della gente? Una strana esperienza, in fondo, riprovata in maniera estremamente intensa leggendo McCarthy.

In realtà non è stata l'unica: nel poco tempo libero rimasto sono incappata in un testo altrettanto interessante e insolito (Il silenzio di Mosca, di Marina Jarre) e in una serie di pagine sparse che, tutte quante, sembravano congiurare per obbligarmi a confrontarmi con il tema della morte. Perfino l'ultimo racconto che ho letto: Il mondo del ricordo, di Peter Cameron, bellissimo. Ma questo sarà il soggetto del prossimo post.


1 commento:

Pablo ha detto...

Bellissimo libro.
Complimenti per la recensione

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