Questo mio racconto venne pubblicato, come La bolla di Massimo Citi, sull'antologia Tutto il nero del Piemonte. Lo riesumo qui non per copiare il mio compagno, ma perché, terminato da un pezzo il periodo del «prestito» all'editore Noubs, mi fa piacere offrirgli un'altra possibilità di essere letta.
Scriverlo è stata una strana esperienza: raccontare luoghi riconoscibili (la storia doveva svolgersi in Piemonte), era una novità per me che, di solito, descrivo luoghi lontani nel tempo (SF) oppure luoghi molto particolari (fantastico) o indefinibili, fatti di ricordi evocati e rimescolati. Il tema, poi, doveva essere «nero». «Torino città magica» è uno stereotipo talmente banale che ero scoraggiata. Così ci ho messo dentro un po' dei ricordi di quando ero piccola e il mio odio inspiegabile per gli addobbi natalizi in serie. E mi sono tolta una bella soddisfazione. Perché io, di quei cosi che penzolano dai balconi non mi sono mai fidata. Ecco.
Questa sera mi sento strana.
Scriverlo è stata una strana esperienza: raccontare luoghi riconoscibili (la storia doveva svolgersi in Piemonte), era una novità per me che, di solito, descrivo luoghi lontani nel tempo (SF) oppure luoghi molto particolari (fantastico) o indefinibili, fatti di ricordi evocati e rimescolati. Il tema, poi, doveva essere «nero». «Torino città magica» è uno stereotipo talmente banale che ero scoraggiata. Così ci ho messo dentro un po' dei ricordi di quando ero piccola e il mio odio inspiegabile per gli addobbi natalizi in serie. E mi sono tolta una bella soddisfazione. Perché io, di quei cosi che penzolano dai balconi non mi sono mai fidata. Ecco.
Questa sera mi sento strana.
Sarà
colpa di quest’inverno mai arrivato, che ci ha privato della quiete
sonnolenta di gennaio; o dell’alba di questa mattina, sfolgorante
tra i palazzi severi, piena di rossi gentili e minacciosi, portatori
di incomprensibili promesse. O di questa assurda, sottilissima falce
di luna sbilenca che sorride malevola accanto al campanile…
C’è
un profumo nell’aria, che non conosco eppure mi chiama, mi spinge
fuori. Annuso inquietudine mescolata agli odori sintetici della Città
dell’auto. Qualcosa deve accadere, oltre i vetri chiusi che ho la
tentazione di spalancare. E io voglio esserci, vedere. Non restare
qui, prigioniera del mio vecchio e comodo appartamento, a respirare
l’odore stantio delle case perbene. Di questa città che ostenta la
probità invece del lusso. Della sua gente che pratica una
signorilità modesta ed educata, escludendo gli altri con poche
parole di un dialetto che un tempo anche i monarchi parlavano e che
oggi nessuno ha più motivo di imparare.
Dalla
vetrata dello studio osservo i tetti bui, i camini che esalano lievi
sbuffi di fumo, gli alti condomini lontani, pieni di luci e di vite
che non mi sfiorano mai, cullata dal traffico che scorre nelle larghe
vie parallele. Sei piani più in basso la strada è silenziosa, poche
auto la percorrono a velocità ridotta, uno sconosciuto cammina senza
rumore lungo il marciapiede illuminato dai lampioni.
Fisso
senza pensare a nulla le inutili cordate di babbi natali che nessuno
ha ancora rimosso.
Mi
riscuoto, vado a infilarmi le scarpe, indosso il cappotto nero fin
troppo pesante per questo tempo insensato, mi avvolgo nella pashmina
violetta soltanto per offrirmi un po’ di colore.
L’ascensore
cigola mentre spio le ragioni della mia decisione sul viso stanco che
mi guarda dallo specchio. Le porte scorrevoli si aprono silenziose
dietro di me.
Il
portone del palazzo si chiude reciso alle mie spalle. Non appartengo
più alla comunità dei condomini che si salutano con cortesia
formale e rassicurante. Ora che sono Fuori.
La
via risuona soltanto del mio passo, la lunga ombra che mi sta
incollata ai piedi non può appartenermi. Affondo le mani nelle
tasche, sfioro le chiavi e il portafoglio e penso con inquietudine al
cellulare abbandonato sulla scrivania.
Riconosco
il vento leggero e i profumi che sussurrano un’impossibile
primavera. Ma non l’oscurità, i cerchi di luce, le lame luminose
dei fari… La città è una quinta teatrale e io sono l’unica
attrice, insieme ai pupazzi vestiti di rosso che ancora pendono dalle
finestre. Che da settimane si arrampicano lenti, senza mai arrivare,
senza poter scavalcare i davanzali, lasciati soli, fuori, a
osservare.
Svolto
in una viuzza, sospinta da un’ansia che avevo dimenticato.
Marciapiedi
fiancheggiati dalle auto parcheggiate, bidoni di rifiuti, il giallo
intermittente di un semaforo lontano. Nessuno. Nella via accanto un
motore potente ronfa su note basse, che solo il mio stomaco può
udire. Svolto ancora.
Nero,
il massiccio furgone dalla sagoma sconosciuta, basso e piegato sulla
ginocchia metalliche, acquattato nel buio, pronto a scattare.
Mi
avvicino cauta, chiedendomi perché sono lì. Il portello posteriore
scorre senza rumore,
forme tozze e scure balzano a terra, le schiene piegate, come
creature deformi. Attraversano isole di luce, grossi sacchi pendono
vuoti sulle spalle, i piedi volano negli stivaletti, la corta
pelliccetta che borda le giacche riflette il chiarore, le mani
guantate reggono ostinate lunghe corde bianche.
La
portiera del furgone si spalanca, dalla cabina scende qualcuno
avvolto in uno spolverino fuori misura. È troppo alto per essere una
bambino, troppo basso per essere un adulto. Muove pochi passi curvo
in avanti, in punta di piedi, li incita latrando. Le creature con i
sacchi scompaiono a lunghi salti in fondo alla via. Un’auto li
illumina e subito li cancella.
Non
c’è più nessuno. Non sono mai stata qui.
Mi
avvicino di più, costeggiando il muro di un palazzo. Ora il furgone
è opaco, anonimo e ammaccato qua e là, come centinaia di altri
furgoni. Allungo una mano, lo sfioro. Il motore dorme, il cofano è
freddo da ore, la cabina è vuota.
Quando
lentamente giungo in fondo alla strada tutto è tranquillo, le luci
della città spiovono sulle auto, sui bidoni della raccolta
differenziata, sulla vecchia croma dalle gomme a terra abbandonata
almeno due settimane fa. Ora so dove sono. Rovescio il capo
all’indietro, fisso il cielo stellato, lo sguardo scivola
sull’edificio alla mia sinistra.
Una
piccola cordata di cinque minuscoli babbi natale pencola nel vento,
lassù, al decimo piano.
Abbasso
gli occhi, fisso il selciato, resisto alla tentazione di spiare il
furgone dietro di me. Di guardare ancora in alto. Per non tornare sui
miei passi percorro vie interminabili.
Il
portone del palazzo si chiude reciso alle mie spalle. Ma questa volta
sono dentro, al sicuro. Se soltanto incontrassi qualcuno, se un
inquilino importuno mi rubasse l’ascensore, se fossi costretta a
incrociarlo, ad augurargli quel detestabile, ipocrita «buonasera!»…
Armeggio
con le chiavi, entro, chiudo a quattro mandate e comincio a tirar giù
le serrande dello studio.
No,
questo no. Non l’ho mai fatto, abito al sesto piano, davanti a me
ho soltanto tetti bassi e palazzi lontani con finestre grandi come
televisori giocattolo. Nulla può raggiungermi, nulla può
arrampicarsi fin quassù.
Tranne
i babbi natale.
Ma
io detesto gli addobbi natalizi, niente pende mai dal mio lungo
balcone, dalle mie finestre.
Mi
fanno paura. Ecco, l’ho ammesso.
Bambocci
festosi. Ma non c’è nulla di rassicurante in questi macabri cloni
di un vecchio impiccione che penzolano come l’impiccato dei
tarocchi dai muri della città. Se fossi un bambino sarei
terrorizzato da quelle parodie di umanità che ci spiano, che forse
aspettano il nostro sonno per entrare, da quei ladri grassi,
travestiti da clown, che spuntano sorridenti oltre i davanzali,
pronti a porgere la zampa. E intanto pensano a come addentarti.
No,
questi sono pensieri assurdi. Ciò che davvero detesto non sono i
pupazzi, ma il cattivo gusto nel quale tutti prima o poi scivoliamo e
che ci spinge ad acquistare cuori di peluche zeppi di cioccolatini,
pipistrelli di gomma ad ali spalancate, zucche di plastica e mazzi di
babbi natali infilati in sacchi di plastica come cadaveri… Ciò che
odio è il contagio puerile ed esibizionista, la fretta incurante che
ce li fa preferire agli abeti da decorare con i fili d’argento, ai
presepi sempre diversi, costruiti anno dopo anno con pazienza,
liberando dalla carta i pastori e le pecorelle appartenute ai nonni…
senza crederci, ma con rispetto. Adesso, invece, bastano due chiodini
e ognuno può lanciare nel vuoto la propria cordata natalizia di
mostriciattoli rossi.
E
loro, i babbi natale, restano tra noi.
A
feste finite, a gennaio inoltrato, continuano a penzolare dalle
finestre, dalle insegne, dimenticati e sporchi, aspettando che i
compratori abbiano deciso la loro sorte: issarli in casa, ammetterli
a cena, riempire di salme un sacco nero? Arrotolare fune e babbetti e
riporli in soffitta o in cantina, ad aspettare il prossimo Natale con
la pazienza rancorosa degli oggetti inutili, contemplando il buio con
gli occhi di bottone? Sganciare la corda e lasciarli precipitare, a
decidere il loro destino da soli o con l’aiuto dei netturbini?
Passi
affrettati sul soffitto e una porta sbattuta al piano di sopra mi
fanno sussultare. Allontano la fronte dal vetro che adesso mi pare
gelato, vado a farmi un ultimo caffè.
Osservo
le mie mani compiere con affanno i gesti di sempre. Non posso averli
visti, quel furgone acquattato, quei cosi in corsa, la strada
improvvisamente vuota e la finestra lassù… E la creatura con
l’impermeabile, barcollante su due zampe come un cane, che latrava
nel buio.
D’impulso
spengo la caffettiera elettrica, vado a infilare il cappotto, afferro
chiavi e portafoglio. Torno indietro a prendere il cellulare.
Ho
freddo e sono nervosa, non desidero andare a controllare. Troppo
stupido uscire ancora nella via deserta, cercare la viuzza del
furgone, sperando di trovarlo freddo e buio. Di non trovarlo affatto.
Temendo che si sia spostato per trasportare un altro carico di
piccole spie obese e intraprendenti. Domani. Basterebbe attendere
domani e andare al lavoro qualche minuto prima, giusto il tempo di
passare laggiù a dare un’occhiata sapendo di trovare tutto come al
solito. Un anonimo furgone nero, un mazzo di babbi natali appesi al
decimo piano.
Vorrei
essere ancora bambina e correre dal nonno a raccontare questa
fantasia idiota.
Fuori
qualcosa è cambiato. La sera è scivolata nella notte, la falce di
luna è coperta dalle nubi, È molto tardi e le luci del campanile
sono state spente, i lampioni sono semplici globi luminosi. Forse la
temperatura sta finalmente scendendo, come si augurava in TV
l’esperto del meteo.
Faccio
il giro più lungo, mi ripeto che non ha senso essere qui, mi illudo
che ogni via sia quella giusta, e che non ci siano furgoni né
creature deformi né…
Era
qui, ne sono sicura, era qui. Ma non c’è più. Quindi mi ero
sbagliata. Quindi è andato via, a scaricare altri… Quindi non
c’era nulla.
Quindi
semplicemente rientrare, piantarla con queste fantasie morbose.
Andare a letto dopo una tisana calmante. Sfogliare un buon libro e
scivolare nel sonno.
Quindi
lassù… Erano cinque, lo ricordo benissimo. E sono quattro.
No,
quattro! Prima il muro era pieno di ombre e ora la luna, liberata
dalla nubi sfolgora chiarissima. Mi sono sbagliata. Prima. Erano
quattro.
Ma
la finestra, prima, aveva le tende accostate.
E
adesso qualcuno, insonne le avrà aperte per guardare la notte… Per
accogliere i visitatori. Per…
Corro
via addossata al marciapiede, sforzandomi di rendere i miei passi
silenziosi, di non farmi scoprire. Il ronfare del grosso motore è
sempre più vicino. Dietro di me un latrato e uno scalpiccio di piedi
goffi e scalzi. Come quelli di un cane.
La
giornata sembra eterna, troppe ore mi separano da una cena alla buona
e un lungo sonno. Mentre scorro pratiche, controllo procedure e
annoto particolari di cui discutere con i clienti, gli occhi si
chiudono inesorabili. Le tempie pulsano, i caratteri sullo schermo si
confondono, il puntatore del mouse salta qua e là al tocco delle mie
dita maldestre.
Questa
sera non metterò il naso fuori di casa. Ho disdetto anche
l’appuntamento per il cinema, accampando scuse poco convincenti con
Marco, Elena e Vittorio. Non mi affaccerò alle finestre, non mi farò
domande. Resterò con lo sguardo e la mente incollati al film più
stupido che riuscirò a scovare, e finito quello ne troverò un
altro, aspettando che il sonnifero prescritto dal medico per le
emergenze faccia il suo effetto.
È
lì sotto. Lo so, sento il suo ansare roco anche da quassù. Il suo e
quello del suo furgone, e i passi felpati dei così vestiti di rosso.
Lo sfregare delle loro funi bianche sul muro del palazzo.
Mi
riscuoto tremante, con la mano intorpidita afferro al volo il
telecomando prima che atterri sul pavimento. Addormentarmi davanti al
televisore era il minimo che potesse capitarmi. Ho freddo, la
temperatura in casa sembra bruscamente scesa. Più del solito, anche
considerando l’ora tarda, mi pare. L’unico rimedio è indossare
un maglione e bere qualcosa di caldo. compiere gesti banali, pensare
pensieri normali, senza pretese, impedire all’impossibile di
irrompere ancora dentro di me. Così mi alzo, indosso la mia
vestaglia più pesante e riempio la tisaniera di acqua bollente e
intanto, dalla minuscola finestra del cucinino, osservo con simulata
indifferenza i palazzi lontani, i balconi vuoti e le finestre buie.
Dalle quali pendono ancora quei… quegli stupidi addobbi natalizi di
cattivo gusto.
Poi
porto la tazza di tisana bollente addolcita con un po’ di miele
nello studio, mi siedo alla scrivania, proprio davanti alla grande
porta-finestra. Da qui sorveglio i tetti e il cielo scuro. Ma non la
via. Quella posso tenerla d’occhio soltanto dal balcone. E devo
uscire. Ma non voglio. Così resto chiusa in casa, ad ascoltare il
respiro roco del furgone, a immaginarlo acquattato come un predatore
metallico, pronto a balzare, a prendermi, dopo aver partorito grossi
topi vestiti di bianco e di rosso. Che stringono lunghe funi con le
mani guantate.
Non
era una sogno.
Ho
appena guardato, affacciandomi con cautela dall’angolo più lontano
del lungo balcone che amo tanto. Acquattata nell’ombra del muretto
che lo divide dal balcone del vicino. E mi sono sporta, il meno
possibile, per guardare in basso. E l’ho visto, là in basso, il
tetto oscuro e luccicante, raccolto su se stesso molleggia sulle
grandi ruote dai cerchioni neri. Mi aspetta. E loro, i piccoli ladri,
guadagnano terreno centimetro dopo centimetro, le funi bianche
pendono sotto di loro e in alto non sono ancorate a nulla. Strisciano
come mosche sul palazzo verticale, senza fatica. Come gechi, come il
conte Dracula.
Non
posso più aspettare, ma non posso nemmeno spalancare la porta e
scendere, il Cane è là sotto ad aspettarmi.
Rientro
di corsa, mi chiudo patetica i vetri alle spalle, Spengo le luci,
scappo in camera da letto e batto terrorizzata contro al parete che
mi separa dai vicini, grido senza emettere suoni. Dovrei correre a
tirare giù la grande serranda, sigillare la camera. Invece mi faccio
più piccola che posso e striscio sotto il letto.
Nessun
rumore nello studio. Il silenzio riempie lo spazio, si rapprende, si
addensa. La luce della logica si affievolisce. Oltre il vetro
smerigliato, il buio si appropria della stanza. Poi, fuori, piccoli
tacchi percuotono le piastrelle di cotto. Mi appiattisco contro il
pavimento. Gli occhi corrono dalla porta alla vetrata.
Sono
entrati.
Il
balcone troppo lungo, troppo esposto, che adesso maledico con tutta
me stessa, è vuoto. Poi la porta diventa brillante, i contorni
sfumano, il vetro cola liquefatto. L’oscurità penetra nella
stanza, lenta come fumo, inghiotte con le sue fauci vuote le luci
fievoli della città, infila le dita senza forma oltre i bordi del
piumone, mi lambisce le caviglie mi trascina senza rumore e senza
violenza fuori dal mio nascondiglio. Non mi ritraggo, non collaboro,
mi abbandono alla stretta gelata.
Loro
mi circondano senza fretta, li guardo impotente attraverso le
palpebre chiuse.
Dieci
minuscoli occhi di bottone mi esaminano dall’alto, mi osservano
curiosi e indifferenti. L’aria è attraversata da una rete vibrante
di pensieri che non hanno bisogno di parole. Loro, tutti insieme, si
sfilano i guantini bianchi, allungano la destra, mi sfiorano cauti e
la ritraggono, come bambini timorosi. Poi, presa confidenza, mi
esplorano spassionati, infilano le loro zampette sfacciate fra i
capelli, sotto il maglione, nella cintura. Le piccole dita fredde si
fanno insistenti, fievoli squittii accompagnano i loro gesti. Poi,
tutti insieme, si leccano le labbra violacee, baffi e barba di ovatta
tremano di eccitazione, le piccole lingue, rosse e calde come quelle
di cuccioli affamati, assaggiano la mia pelle. Le bocche si
spalancano allegre, i denti forano impietosi l’oscurità, cento
piccole unghie affilate mi graffiano con furia. Ora gli squittii
lacerano il buio e tagliano le mie orecchie come bisturi. Parlano,
parlano, e chiedono indiscreti, invadenti, senza lasciarmi
rispondere. Senza lasciarmi capire. Balbetto frasi senza significato,
prego e mi nego con cento no affannosi che non servono a nulla.
Lui,
là sotto, latra imperioso.
È
il freddo a svegliarmi, il corpo geme irrigidito sul pavimento
gelato.
02.12.
Le cifre della radiosveglia brillano rosse e irraggiungibili. Le
tempie pulsano, le articolazioni rifiutano di funzionare. Per un
attimo penso terrorizzata a tutto ciò che potrebbe essermi accaduto.
Un ictus. Un danno cerebrale. Un infarto. Una crisi epilettica. Un
femore rotto, l’eventualità meno grave, quella che mi auguro.
Immagini confuse e prive di senso scorrono nella mente, peggiori di
tutte le possibilità contemplate. Una risata isterica mi scuote
all’improvviso, le ossa scattano come i tasti di un vecchio
vibrafono. Posso muovermi! Rotolo su me stessa, mi accuccio sulle
ginocchia in attesa di trovare la forza di mettermi in piedi.
Ascolto.
Nessun
rumore, la casa è vuota.
Stringo
le mani senza difficoltà, il cuore batte regolare, muovo le dita dei
piedi, sento le mani che esplorano frenetiche arti, tronco, testa.
Nessuna ferita. nessun danno permanente.
Ho
sognato. Non è successo nulla. Nulla può raggiungermi quassù. Sono
sempre stata al sicuro.
Un’altra
risata mi scuote come una bambola di stracci. Non è accaduto nulla.
Sono semplicemente impazzita.
La
porta della camera è lì, davanti a me, solida, prosaica. La luce
della lampada entra soffusa e calda attraverso il vetro smerigliato.
Semplicemente
impazzita. Per un po’. Qualche ora, a giudicare dalle cifre rosse
della radiosveglia. Poi mi sono addormentata sul pavimento. E ho
sognato. Un pessimo sogno.
Un
sogno.
Tra
poco, quando mi sentirò abbastanza forte, quando avrò cominciato a
dimenticare, mi trascinerò in bagno a liberare lo stomaco e la
vescica. Stupido corpo che non sa contenersi nemmeno quando la mente
scivola via.
"Donna Alla Finestra", E. Gioacchini, 1973 |
No,
non vedrò altro che il mio viso bianco come il gesso e i miei occhi
spiritati. Occhi da pazza, occhi vuoti da decerebrata.
Dopo
il tentativo di furto e la denuncia contro ignoti avrei potuto
chiedere qualche giorno di ferie in ufficio. Il maresciallo che è
venuto a raccogliere la denuncia me l’ha consigliato: «Si prenda
qualche giorno, signora. Per rimettersi dallo spavento. Poi, se vorrà
confermare la denuncia, è sufficiente che passi a firmare la
deposizione». E ha sorriso cortese, scettico.
Ma
la casa, questa mattina, mi sembrava troppo vuota. Le vite dei
vicini, di solito così rumorose e invadenti, oggi erano lontane,
rarefatte. Estranei, ecco che cosa siamo. Troppo diversi per
comprenderci, perfino nella nostra ordinaria banalità. Incapaci di
vederci davvero, di sopportarci.
Potrei
crepare dietro la mia porta ben chiusa, e loro dietro le loro,
protette da due o tre serrature…
Meglio
andare in ufficio.
Ho
freddo, le articolazioni mi dolgono, la pelle arrossata sfrega
dolorosamente contro gli abiti pesanti. Sbatto le palpebre come un
vecchio barbagianni, la luce fredda del mattino mi ferisce gli occhi
dietro le lenti scure. Percorro a passi misurati le vie che conosco
da sempre, a ogni angolo mi obbligo ad alzare lo sguardo sulle
facciate dei palazzi.
Vuote.
Se ne sono andati. Non ne è rimasto nessuno.
Lui
li ha caricati nel furgone e, via dopo via, se li è portati via
tutti.
5 commenti:
Le decorazioni natalizie mi piacciono ma non quelle con Babbo Natale che si arrampica su per le finestre. E da oggi mi piaceranno ancora meno, temo! Il racconto mi ha conquistata e poi hai toccato alcuni temi che mi piacciono molto nella narrativa, quindi è stata proprio una bella lettura!
Non so se sei a favore o contro i meme, comunque io ti ho nominata: http://tamerici-romina.blogspot.it/2012/09/liebster-award.html
@Romina: grazie per aver apprezzato il racconto! In realtà non odio tutte le decorazioni natalizie, anzi gli alberi di natale stracaichi di fili e palline mi mettono sempre di buon umore. Sono le cose già fatte che non mi piacciono: l'alberino già decorato uguale a tutti gli altri, il presepietto già completo... e Loro. Per i meme ti rispondo direttamente sul tuo blog.
Tremendissimo come tutti i tuoi migliori. Anche a me l'invasione dei babbi natali mi fa senso, ma li vedo più patetici che minacciosi. Come i morti sotto ghiaccio sull'Everest...
Bellissimo racconto comunque, di orrore strisciante (rampicante) e inesplicabile. Grazie per averlo condiviso.
@Consolata: grazie per il commento, soprattutto per il "tremendissimo" (molto lusighiero, venendo da una maga di storie soavemente "tremende" come te). Bello il tuo paragone con i morti sotto ghiaccio: i babbi più sfortunati stanno lì appesi fino a trapassare soffocati dalla polvere e dallo smog. Condannarli a una sorte così schifosa è crudele, secondo me ci odiano tutti.
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