lunedì 10 settembre 2012

Oltre la finestra

Questo mio racconto venne pubblicato, come La bolla di Massimo Citi, sull'antologia Tutto il nero del Piemonte. Lo riesumo  qui non per copiare il mio compagno, ma perché, terminato da un pezzo il periodo del «prestito» all'editore Noubs, mi fa piacere offrirgli un'altra possibilità di essere letta. 
Scriverlo è stata una strana esperienza: raccontare luoghi riconoscibili (la storia doveva svolgersi in Piemonte), era una novità per me che, di solito,  descrivo luoghi lontani nel tempo (SF) oppure luoghi molto particolari (fantastico) o indefinibili, fatti di ricordi evocati e rimescolati. Il tema, poi, doveva essere «nero». «Torino città magica» è uno stereotipo talmente banale che ero scoraggiata. Così ci ho messo dentro un po' dei ricordi di quando ero piccola e il mio odio inspiegabile per gli addobbi natalizi in serie. E mi sono tolta una bella soddisfazione. Perché io, di quei cosi che penzolano dai balconi non mi sono mai fidata. Ecco.
 

Questa sera mi sento strana.
Sarà colpa di quest’inverno mai arrivato, che ci ha privato della quiete sonnolenta di gennaio; o dell’alba di questa mattina, sfolgorante tra i palazzi severi, piena di rossi gentili e minacciosi, portatori di incomprensibili promesse. O di questa assurda, sottilissima falce di luna sbilenca che sorride malevola accanto al campanile…
Sarà colpa degli alberi appena trapiantati nella piazza vicina, coperti di gemme e ubriachi di sole fuori stagione.
C’è un profumo nell’aria, che non conosco eppure mi chiama, mi spinge fuori. Annuso inquietudine mescolata agli odori sintetici della Città dell’auto. Qualcosa deve accadere, oltre i vetri chiusi che ho la tentazione di spalancare. E io voglio esserci, vedere. Non restare qui, prigioniera del mio vecchio e comodo appartamento, a respirare l’odore stantio delle case perbene. Di questa città che ostenta la probità invece del lusso. Della sua gente che pratica una signorilità modesta ed educata, escludendo gli altri con poche parole di un dialetto che un tempo anche i monarchi parlavano e che oggi nessuno ha più motivo di imparare.
Dalla vetrata dello studio osservo i tetti bui, i camini che esalano lievi sbuffi di fumo, gli alti condomini lontani, pieni di luci e di vite che non mi sfiorano mai, cullata dal traffico che scorre nelle larghe vie parallele. Sei piani più in basso la strada è silenziosa, poche auto la percorrono a velocità ridotta, uno sconosciuto cammina senza rumore lungo il marciapiede illuminato dai lampioni.
Fisso senza pensare a nulla le inutili cordate di babbi natali che nessuno ha ancora rimosso.
Mi riscuoto, vado a infilarmi le scarpe, indosso il cappotto nero fin troppo pesante per questo tempo insensato, mi avvolgo nella pashmina violetta soltanto per offrirmi un po’ di colore.
L’ascensore cigola mentre spio le ragioni della mia decisione sul viso stanco che mi guarda dallo specchio. Le porte scorrevoli si aprono silenziose dietro di me.
Il portone del palazzo si chiude reciso alle mie spalle. Non appartengo più alla comunità dei condomini che si salutano con cortesia formale e rassicurante. Ora che sono Fuori.
La via risuona soltanto del mio passo, la lunga ombra che mi sta incollata ai piedi non può appartenermi. Affondo le mani nelle tasche, sfioro le chiavi e il portafoglio e penso con inquietudine al cellulare abbandonato sulla scrivania.
Riconosco il vento leggero e i profumi che sussurrano un’impossibile primavera. Ma non l’oscurità, i cerchi di luce, le lame luminose dei fari… La città è una quinta teatrale e io sono l’unica attrice, insieme ai pupazzi vestiti di rosso che ancora pendono dalle finestre. Che da settimane si arrampicano lenti, senza mai arrivare, senza poter scavalcare i davanzali, lasciati soli, fuori, a osservare.
Sbuco nella via principale. Da piccola la percorrevo ogni giorno a piedi, diretta alla stazione. Stringevo la mano del nonno, assorta nel ritmo dei passi, inseguivamo da un marciapiedi all’altro l’ombra o il sole a seconda delle stagioni. Le piazze attraversate erano tutte diverse e tutte uguali: a destra, lontano, sempre la collina e il lungofiume, a sinistra la grande schiena di un ponte che superava la ferrovia. Li amavo, i ponti, come lunghi, possenti animali acquattati, ossatura di ferro-cemento sospesa tra palazzi ottocenteschi e i sogni modernisti delle fabbriche. La strada ferrata, il Museo dell’automobile, il quartiere fittizio dell’esposizione del 1961… Una promessa di futuro che già allora sentivo intrisa di malinconia. Oggi la grande via scivola discreta di fronte a banche e concessionarie d’auto straniere, che non sono più quelle del sogno produttivo dei miei nonni.
Svolto in una viuzza, sospinta da un’ansia che avevo dimenticato.
Marciapiedi fiancheggiati dalle auto parcheggiate, bidoni di rifiuti, il giallo intermittente di un semaforo lontano. Nessuno. Nella via accanto un motore potente ronfa su note basse, che solo il mio stomaco può udire. Svolto ancora.
Nero, il massiccio furgone dalla sagoma sconosciuta, basso e piegato sulla ginocchia metalliche, acquattato nel buio, pronto a scattare.
Mi avvicino cauta, chiedendomi perché sono lì. Il portello posteriore scorre senza rumore, forme tozze e scure balzano a terra, le schiene piegate, come creature deformi. Attraversano isole di luce, grossi sacchi pendono vuoti sulle spalle, i piedi volano negli stivaletti, la corta pelliccetta che borda le giacche riflette il chiarore, le mani guantate reggono ostinate lunghe corde bianche.
La portiera del furgone si spalanca, dalla cabina scende qualcuno avvolto in uno spolverino fuori misura. È troppo alto per essere una bambino, troppo basso per essere un adulto. Muove pochi passi curvo in avanti, in punta di piedi, li incita latrando. Le creature con i sacchi scompaiono a lunghi salti in fondo alla via. Un’auto li illumina e subito li cancella.
Non c’è più nessuno. Non sono mai stata qui.
Mi avvicino di più, costeggiando il muro di un palazzo. Ora il furgone è opaco, anonimo e ammaccato qua e là, come centinaia di altri furgoni. Allungo una mano, lo sfioro. Il motore dorme, il cofano è freddo da ore, la cabina è vuota.
Quando lentamente giungo in fondo alla strada tutto è tranquillo, le luci della città spiovono sulle auto, sui bidoni della raccolta differenziata, sulla vecchia croma dalle gomme a terra abbandonata almeno due settimane fa. Ora so dove sono. Rovescio il capo all’indietro, fisso il cielo stellato, lo sguardo scivola sull’edificio alla mia sinistra.
Una piccola cordata di cinque minuscoli babbi natale pencola nel vento, lassù, al decimo piano.
Abbasso gli occhi, fisso il selciato, resisto alla tentazione di spiare il furgone dietro di me. Di guardare ancora in alto. Per non tornare sui miei passi percorro vie interminabili.

Il portone del palazzo si chiude reciso alle mie spalle. Ma questa volta sono dentro, al sicuro. Se soltanto incontrassi qualcuno, se un inquilino importuno mi rubasse l’ascensore, se fossi costretta a incrociarlo, ad augurargli quel detestabile, ipocrita «buonasera!»…
Armeggio con le chiavi, entro, chiudo a quattro mandate e comincio a tirar giù le serrande dello studio.
No, questo no. Non l’ho mai fatto, abito al sesto piano, davanti a me ho soltanto tetti bassi e palazzi lontani con finestre grandi come televisori giocattolo. Nulla può raggiungermi, nulla può arrampicarsi fin quassù.
Tranne i babbi natale.
Ma io detesto gli addobbi natalizi, niente pende mai dal mio lungo balcone, dalle mie finestre.

Mi fanno paura. Ecco, l’ho ammesso.
Bambocci festosi. Ma non c’è nulla di rassicurante in questi macabri cloni di un vecchio impiccione che penzolano come l’impiccato dei tarocchi dai muri della città. Se fossi un bambino sarei terrorizzato da quelle parodie di umanità che ci spiano, che forse aspettano il nostro sonno per entrare, da quei ladri grassi, travestiti da clown, che spuntano sorridenti oltre i davanzali, pronti a porgere la zampa. E intanto pensano a come addentarti.
No, questi sono pensieri assurdi. Ciò che davvero detesto non sono i pupazzi, ma il cattivo gusto nel quale tutti prima o poi scivoliamo e che ci spinge ad acquistare cuori di peluche zeppi di cioccolatini, pipistrelli di gomma ad ali spalancate, zucche di plastica e mazzi di babbi natali infilati in sacchi di plastica come cadaveri… Ciò che odio è il contagio puerile ed esibizionista, la fretta incurante che ce li fa preferire agli abeti da decorare con i fili d’argento, ai presepi sempre diversi, costruiti anno dopo anno con pazienza, liberando dalla carta i pastori e le pecorelle appartenute ai nonni… senza crederci, ma con rispetto. Adesso, invece, bastano due chiodini e ognuno può lanciare nel vuoto la propria cordata natalizia di mostriciattoli rossi.
E loro, i babbi natale, restano tra noi.
A feste finite, a gennaio inoltrato, continuano a penzolare dalle finestre, dalle insegne, dimenticati e sporchi, aspettando che i compratori abbiano deciso la loro sorte: issarli in casa, ammetterli a cena, riempire di salme un sacco nero? Arrotolare fune e babbetti e riporli in soffitta o in cantina, ad aspettare il prossimo Natale con la pazienza rancorosa degli oggetti inutili, contemplando il buio con gli occhi di bottone? Sganciare la corda e lasciarli precipitare, a decidere il loro destino da soli o con l’aiuto dei netturbini?
Passi affrettati sul soffitto e una porta sbattuta al piano di sopra mi fanno sussultare. Allontano la fronte dal vetro che adesso mi pare gelato, vado a farmi un ultimo caffè.
Osservo le mie mani compiere con affanno i gesti di sempre. Non posso averli visti, quel furgone acquattato, quei cosi in corsa, la strada improvvisamente vuota e la finestra lassù… E la creatura con l’impermeabile, barcollante su due zampe come un cane, che latrava nel buio.
D’impulso spengo la caffettiera elettrica, vado a infilare il cappotto, afferro chiavi e portafoglio. Torno indietro a prendere il cellulare.
Ho freddo e sono nervosa, non desidero andare a controllare. Troppo stupido uscire ancora nella via deserta, cercare la viuzza del furgone, sperando di trovarlo freddo e buio. Di non trovarlo affatto. Temendo che si sia spostato per trasportare un altro carico di piccole spie obese e intraprendenti. Domani. Basterebbe attendere domani e andare al lavoro qualche minuto prima, giusto il tempo di passare laggiù a dare un’occhiata sapendo di trovare tutto come al solito. Un anonimo furgone nero, un mazzo di babbi natali appesi al decimo piano.
Vorrei essere ancora bambina e correre dal nonno a raccontare questa fantasia idiota.

Fuori qualcosa è cambiato. La sera è scivolata nella notte, la falce di luna è coperta dalle nubi, È molto tardi e le luci del campanile sono state spente, i lampioni sono semplici globi luminosi. Forse la temperatura sta finalmente scendendo, come si augurava in TV l’esperto del meteo.
Faccio il giro più lungo, mi ripeto che non ha senso essere qui, mi illudo che ogni via sia quella giusta, e che non ci siano furgoni né creature deformi né…
Era qui, ne sono sicura, era qui. Ma non c’è più. Quindi mi ero sbagliata. Quindi è andato via, a scaricare altri… Quindi non c’era nulla.
Quindi semplicemente rientrare, piantarla con queste fantasie morbose. Andare a letto dopo una tisana calmante. Sfogliare un buon libro e scivolare nel sonno.
Quindi lassù… Erano cinque, lo ricordo benissimo. E sono quattro.
No, quattro! Prima il muro era pieno di ombre e ora la luna, liberata dalla nubi sfolgora chiarissima. Mi sono sbagliata. Prima. Erano quattro.
Ma la finestra, prima, aveva le tende accostate.
E adesso qualcuno, insonne le avrà aperte per guardare la notte… Per accogliere i visitatori. Per…
Corro via addossata al marciapiede, sforzandomi di rendere i miei passi silenziosi, di non farmi scoprire. Il ronfare del grosso motore è sempre più vicino. Dietro di me un latrato e uno scalpiccio di piedi goffi e scalzi. Come quelli di un cane.

La giornata sembra eterna, troppe ore mi separano da una cena alla buona e un lungo sonno. Mentre scorro pratiche, controllo procedure e annoto particolari di cui discutere con i clienti, gli occhi si chiudono inesorabili. Le tempie pulsano, i caratteri sullo schermo si confondono, il puntatore del mouse salta qua e là al tocco delle mie dita maldestre.
Questa sera non metterò il naso fuori di casa. Ho disdetto anche l’appuntamento per il cinema, accampando scuse poco convincenti con Marco, Elena e Vittorio. Non mi affaccerò alle finestre, non mi farò domande. Resterò con lo sguardo e la mente incollati al film più stupido che riuscirò a scovare, e finito quello ne troverò un altro, aspettando che il sonnifero prescritto dal medico per le emergenze faccia il suo effetto.

È lì sotto. Lo so, sento il suo ansare roco anche da quassù. Il suo e quello del suo furgone, e i passi felpati dei così vestiti di rosso. Lo sfregare delle loro funi bianche sul muro del palazzo.
Mi riscuoto tremante, con la mano intorpidita afferro al volo il telecomando prima che atterri sul pavimento. Addormentarmi davanti al televisore era il minimo che potesse capitarmi. Ho freddo, la temperatura in casa sembra bruscamente scesa. Più del solito, anche considerando l’ora tarda, mi pare. L’unico rimedio è indossare un maglione e bere qualcosa di caldo. compiere gesti banali, pensare pensieri normali, senza pretese, impedire all’impossibile di irrompere ancora dentro di me. Così mi alzo, indosso la mia vestaglia più pesante e riempio la tisaniera di acqua bollente e intanto, dalla minuscola finestra del cucinino, osservo con simulata indifferenza i palazzi lontani, i balconi vuoti e le finestre buie. Dalle quali pendono ancora quei… quegli stupidi addobbi natalizi di cattivo gusto.
Poi porto la tazza di tisana bollente addolcita con un po’ di miele nello studio, mi siedo alla scrivania, proprio davanti alla grande porta-finestra. Da qui sorveglio i tetti e il cielo scuro. Ma non la via. Quella posso tenerla d’occhio soltanto dal balcone. E devo uscire. Ma non voglio. Così resto chiusa in casa, ad ascoltare il respiro roco del furgone, a immaginarlo acquattato come un predatore metallico, pronto a balzare, a prendermi, dopo aver partorito grossi topi vestiti di bianco e di rosso. Che stringono lunghe funi con le mani guantate.

Non era una sogno.
Ho appena guardato, affacciandomi con cautela dall’angolo più lontano del lungo balcone che amo tanto. Acquattata nell’ombra del muretto che lo divide dal balcone del vicino. E mi sono sporta, il meno possibile, per guardare in basso. E l’ho visto, là in basso, il tetto oscuro e luccicante, raccolto su se stesso molleggia sulle grandi ruote dai cerchioni neri. Mi aspetta. E loro, i piccoli ladri, guadagnano terreno centimetro dopo centimetro, le funi bianche pendono sotto di loro e in alto non sono ancorate a nulla. Strisciano come mosche sul palazzo verticale, senza fatica. Come gechi, come il conte Dracula.
Non posso più aspettare, ma non posso nemmeno spalancare la porta e scendere, il Cane è là sotto ad aspettarmi.
Rientro di corsa, mi chiudo patetica i vetri alle spalle, Spengo le luci, scappo in camera da letto e batto terrorizzata contro al parete che mi separa dai vicini, grido senza emettere suoni. Dovrei correre a tirare giù la grande serranda, sigillare la camera. Invece mi faccio più piccola che posso e striscio sotto il letto.

Nessun rumore nello studio. Il silenzio riempie lo spazio, si rapprende, si addensa. La luce della logica si affievolisce. Oltre il vetro smerigliato, il buio si appropria della stanza. Poi, fuori, piccoli tacchi percuotono le piastrelle di cotto. Mi appiattisco contro il pavimento. Gli occhi corrono dalla porta alla vetrata.
Sono entrati.
Il balcone troppo lungo, troppo esposto, che adesso maledico con tutta me stessa, è vuoto. Poi la porta diventa brillante, i contorni sfumano, il vetro cola liquefatto. L’oscurità penetra nella stanza, lenta come fumo, inghiotte con le sue fauci vuote le luci fievoli della città, infila le dita senza forma oltre i bordi del piumone, mi lambisce le caviglie mi trascina senza rumore e senza violenza fuori dal mio nascondiglio. Non mi ritraggo, non collaboro, mi abbandono alla stretta gelata.
Loro mi circondano senza fretta, li guardo impotente attraverso le palpebre chiuse.
Dieci minuscoli occhi di bottone mi esaminano dall’alto, mi osservano curiosi e indifferenti. L’aria è attraversata da una rete vibrante di pensieri che non hanno bisogno di parole. Loro, tutti insieme, si sfilano i guantini bianchi, allungano la destra, mi sfiorano cauti e la ritraggono, come bambini timorosi. Poi, presa confidenza, mi esplorano spassionati, infilano le loro zampette sfacciate fra i capelli, sotto il maglione, nella cintura. Le piccole dita fredde si fanno insistenti, fievoli squittii accompagnano i loro gesti. Poi, tutti insieme, si leccano le labbra violacee, baffi e barba di ovatta tremano di eccitazione, le piccole lingue, rosse e calde come quelle di cuccioli affamati, assaggiano la mia pelle. Le bocche si spalancano allegre, i denti forano impietosi l’oscurità, cento piccole unghie affilate mi graffiano con furia. Ora gli squittii lacerano il buio e tagliano le mie orecchie come bisturi. Parlano, parlano, e chiedono indiscreti, invadenti, senza lasciarmi rispondere. Senza lasciarmi capire. Balbetto frasi senza significato, prego e mi nego con cento no affannosi che non servono a nulla.
Lui, là sotto, latra imperioso.

È il freddo a svegliarmi, il corpo geme irrigidito sul pavimento gelato.
02.12. Le cifre della radiosveglia brillano rosse e irraggiungibili. Le tempie pulsano, le articolazioni rifiutano di funzionare. Per un attimo penso terrorizzata a tutto ciò che potrebbe essermi accaduto. Un ictus. Un danno cerebrale. Un infarto. Una crisi epilettica. Un femore rotto, l’eventualità meno grave, quella che mi auguro. Immagini confuse e prive di senso scorrono nella mente, peggiori di tutte le possibilità contemplate. Una risata isterica mi scuote all’improvviso, le ossa scattano come i tasti di un vecchio vibrafono. Posso muovermi! Rotolo su me stessa, mi accuccio sulle ginocchia in attesa di trovare la forza di mettermi in piedi.
Ascolto.
Nessun rumore, la casa è vuota.
Stringo le mani senza difficoltà, il cuore batte regolare, muovo le dita dei piedi, sento le mani che esplorano frenetiche arti, tronco, testa. Nessuna ferita. nessun danno permanente.
Ho sognato. Non è successo nulla. Nulla può raggiungermi quassù. Sono sempre stata al sicuro.
Un’altra risata mi scuote come una bambola di stracci. Non è accaduto nulla. Sono semplicemente impazzita.
La porta della camera è lì, davanti a me, solida, prosaica. La luce della lampada entra soffusa e calda attraverso il vetro smerigliato.
Semplicemente impazzita. Per un po’. Qualche ora, a giudicare dalle cifre rosse della radiosveglia. Poi mi sono addormentata sul pavimento. E ho sognato. Un pessimo sogno.
Un sogno.
Tra poco, quando mi sentirò abbastanza forte, quando avrò cominciato a dimenticare, mi trascinerò in bagno a liberare lo stomaco e la vescica. Stupido corpo che non sa contenersi nemmeno quando la mente scivola via.
"Donna Alla Finestra", E. Gioacchini, 1973
Mi guarderò allo specchio, sperando fino all’ultimo di scorgere la mia solita faccia, soltanto più pesta, più spaventata. Di constare che le mie braccia non hanno lividi, le gambe e i fianchi sono lisci e senza graffi. Che sono semplicemente impazzita. Che è stato il gelo di questa notte invernale a trafiggermi con mille aghi e non cinque minuscole chiostre di denti.
No, non vedrò altro che il mio viso bianco come il gesso e i miei occhi spiritati. Occhi da pazza, occhi vuoti da decerebrata.

Dopo il tentativo di furto e la denuncia contro ignoti avrei potuto chiedere qualche giorno di ferie in ufficio. Il maresciallo che è venuto a raccogliere la denuncia me l’ha consigliato: «Si prenda qualche giorno, signora. Per rimettersi dallo spavento. Poi, se vorrà confermare la denuncia, è sufficiente che passi a firmare la deposizione». E ha sorriso cortese, scettico.
Ma la casa, questa mattina, mi sembrava troppo vuota. Le vite dei vicini, di solito così rumorose e invadenti, oggi erano lontane, rarefatte. Estranei, ecco che cosa siamo. Troppo diversi per comprenderci, perfino nella nostra ordinaria banalità. Incapaci di vederci davvero, di sopportarci.
Potrei crepare dietro la mia porta ben chiusa, e loro dietro le loro, protette da due o tre serrature…
Meglio andare in ufficio.
Ho freddo, le articolazioni mi dolgono, la pelle arrossata sfrega dolorosamente contro gli abiti pesanti. Sbatto le palpebre come un vecchio barbagianni, la luce fredda del mattino mi ferisce gli occhi dietro le lenti scure. Percorro a passi misurati le vie che conosco da sempre, a ogni angolo mi obbligo ad alzare lo sguardo sulle facciate dei palazzi.
Vuote. Se ne sono andati. Non ne è rimasto nessuno.
Lui li ha caricati nel furgone e, via dopo via, se li è portati via tutti.

5 commenti:

Romina Tamerici ha detto...

Le decorazioni natalizie mi piacciono ma non quelle con Babbo Natale che si arrampica su per le finestre. E da oggi mi piaceranno ancora meno, temo! Il racconto mi ha conquistata e poi hai toccato alcuni temi che mi piacciono molto nella narrativa, quindi è stata proprio una bella lettura!

Romina Tamerici ha detto...

Non so se sei a favore o contro i meme, comunque io ti ho nominata: http://tamerici-romina.blogspot.it/2012/09/liebster-award.html

S_3ves ha detto...

@Romina: grazie per aver apprezzato il racconto! In realtà non odio tutte le decorazioni natalizie, anzi gli alberi di natale stracaichi di fili e palline mi mettono sempre di buon umore. Sono le cose già fatte che non mi piacciono: l'alberino già decorato uguale a tutti gli altri, il presepietto già completo... e Loro. Per i meme ti rispondo direttamente sul tuo blog.

consolata ha detto...

Tremendissimo come tutti i tuoi migliori. Anche a me l'invasione dei babbi natali mi fa senso, ma li vedo più patetici che minacciosi. Come i morti sotto ghiaccio sull'Everest...
Bellissimo racconto comunque, di orrore strisciante (rampicante) e inesplicabile. Grazie per averlo condiviso.

S_3ves ha detto...

@Consolata: grazie per il commento, soprattutto per il "tremendissimo" (molto lusighiero, venendo da una maga di storie soavemente "tremende" come te). Bello il tuo paragone con i morti sotto ghiaccio: i babbi più sfortunati stanno lì appesi fino a trapassare soffocati dalla polvere e dallo smog. Condannarli a una sorte così schifosa è crudele, secondo me ci odiano tutti.

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