mercoledì 29 dicembre 2010

Un paese di piazzisti e di snob.


Premetto che i piazzisti a cui mi riferisco sono una categoria dello spirito, e non i rispettabili lavoratori che rappresentano ditte e produttori di merci.

Nemmeno in questi giorni di festa riesco a dimenticare la cappa di piombo che ci pesa sulle spalle. Alle parole "politica italiana" ormai sobbalzo incredula: ma in Italia facciamo ancora politica? E quando mai? E dove? In Parlamento? No di certo, se non di piccolo cabotaggio: lì si pone rimedio alle tragedie giudiziarie di Papi, lì, a quanto pare, si fa compravendita di voti. È vero che lì alcuni personaggi di buona volontà (ma colpevoli di ritardi irrimediabili) cercano di attraversare il guado (o uscire al pantano), ma lì il Centro attende di veder passare il cadavere del nemico (anche se questo Centro è talmente labile che spesso perdo di vista la sua posizione e fatico a individuarne il nemico del momento); sempre lì, in Parlamento, la nostra opposizione, fatte salve alcune apprezzabili eccezioni, dà un miserando spettacolo di sé.
Questo spettacolo si merita il nome di «politica» o è semplice tattica di sopravvivenza per un'altra legislatura? Per approdare alle prossimi elezioni e ricandidarsi?
«Gli dei accecano chi vogliono perdere», mi pare dicesse un autore classico. L'ala sinistra del nostro Parlamento deve essere popolata almeno di orbi.
Pesare le dichiarazioni significative dei rappresentanti del PD è un esercizio da farmacisti, c'è giusto da segnarsene qualcuna per ricordarsela al momento di votare (Fassino, forse futuro candidato sindaco torinese: «se fossi un operaio di Mirafiori voterei sì all'accordo»: io abito e voto a Torino!). A continuare a riflettere sulla questione non è, ormai, l'interesse immediato, ma la curiosità storico-sociologica.
In generale, nutro la convinzione che gli «individui chiave» che hanno determinato la Storia siano persone figlie della loro epoca che si sono trovate al posto giusto al momento giusto, non figure uniche, però: altri del medesimo stampo, espressi da un contesto analogo, avrebbero potuto giocare lo stesso loro ruolo. In poche parole credo che la Storia (e i suoi intrecci con la cultura, l'economia ecc.) sia più forte dei singoli e che una crisi, un momento topico, giungeranno comunque, in una delle tante incarnazioni possibili. Sono pochi gli «unicum» che hanno fatto la differenza, incarnando totalmente un certo periodo storico.

Perché Papi, allora? Perché così a lungo e con tale successo da sopravvivere a tutto, perfino a se stesso?
Io credo che sia perché, con tutto il suo potere mediatico e la sua supposta capacità di comunicare, è il perfetto «mister nessuno»: l'uomo della strada fornito di poca cultura rimasticata, di un sorriso di plastica, del gusto per le barzellette stantie, della passione per ciò che considera raffinato in una donna (tubino nero, qualche gioiellino), di tutti i pregiudizi più vieti che non riesce a nascondere o, peggio, che non considera affatto disdicevoli (e che tali non sono per il suo elettorato medio). Papi è il tizio che ti trovi seduto di fianco al pranzo di condominio, il rappresentante «furbo» che riesce, a furia di battute, a piazzarti merci che non fanno parte del tuo orizzonte degli eventi. Simpaticone quando le cose gli vanno bene, rancoroso e cattivo quando è in preda al panico, cura il proprio stile «giovanile» fatto di blazer e maglioncini (e, orrore, di patetiche bandane); ricorre al trapianto di capelli, probabilmente ha il sorriso congelato dal botox. ma nel suo «lavoro», guai ad apparire vecchio...
In poche parole Papi è il «piazzista definitivo» che piazza solo e sempre se stesso, come si diceva l'altro giorno con Max. Un'entità che mette i brividi solo ad alcuni (a me ricorda un romanzo di Philip Dick del, non così datato come potrebbe sembrare: I simulacri. Provate a leggerlo) ma desta la simpatia identitaria di altri.
Ma perché piace a molti (almeno il 25%) italiani? E perché non piace a tanti altri, come non piace a me? Temo che la risposta sia lontanissima dalla politica.
Proviamo a immaginare di chiedere a 1000 italiani «inviteresti a cena Papi? Puoi scegliere tra lui e, poniamo, Fassino. O d'Alema, magari». Almeno 500 persone (probabilmente molte di più), risponderebbero «Papi!», rabbrividendo alle altre due scelte.
Anch'io rabbrividisco, intendiamoci, e uscirei di casa di volata, dicendo «Mi dispiace, ma questa sera ceno fuori. Niente ospiti, grazie». Voi che cosa rispondereste?
Agli occhi dei famosi 500 o più, Papi è più famigliare, più «normale» di «politici» come Fassino e D'alema. Come Bersani. E tanto più rassicurante di gente come Vendola.
Per d'Alema, per esempio, Papi dev'essere stato a lungo soltanto un piazzista, uno che un dritto come lui può fregare quando gli pare. Errore grossolano, ma si sa, d'Alema sarà anche più furbo di tanti altri ma è senz'altro molto meno furbo di quanto credere di essere.
Il guaio è che, agli occhi di gente come me, Papi, il piazzista definitivo, è essenzialmente infrequentabile: noioso e prevedibile, insopportabile anche quando fa il gentile, il galante, la brava persona. Non lo inviteremmo a cena per questioni di buon gusto. Per snobismo, in definitiva.
E questa, sicuramente, non è una valutazione politica. È un fastidio a pelle che non giunge nemmeno a diventare odio e che non rende ragione della complessa natura di questo unicum. Natura complessa che prescinde da lui e che lo rende inamovibile per mancanza di alternativa, per il potere economico e mediatico che passa attraverso di lui, travalicando il suo modesto valore personale.
Una natura che spinge molti di noi a rassegnarsi all'attesa, aggrappandosi all'ultima speranza di rimozione: quella definitiva, attuata da madre natura. Come dicevo, la politica non c'entra niente.

domenica 19 dicembre 2010

Senza parole

Sono docente di matematica e scienze in questa scuola sempre meno pubblica. leggo e ascolto quotidianamente opinioni su questo baraccone costruite sul nulla, giudizi disinformati sugli studenti ("sempre più ignoranti"), i giovani ("menefreghisti, ripiegati sul loro «particulare», mentre noi, ai nostri tempi; oppure, a scelta, "violenti, capaci soltanto di distruggere…"), gli insegnanti ("incolti", sfaccendati, fanno il minimo indispensabile, poco professionali… ah, sì: "hanno tre mesi di vacanza e lavorano diciotto ore la settimana, quelli!"). Subisco sparate ministeriali sempre più tangenziali ai veri problemi della scuola e della cultura e livorosi pensierini della stampa di destra. Qualche volta, sono tentata di pubblicare un post documentato e articolatissimo che faccia piazza pulita di tuttequeste (false) banalità. Poi, lo sconforto, la rabbia, la noia di sentire dalla solita gente (me inclusa) i soliti discorsi, prevalgono e lascio perdere. Tanto chi lo leggerebbe, ben che vada un pugno di persone che già la pensano come me.


Questo, quindi, non è un post documentatissimo, solo un mazzo di impressioni, osservazioni e notizie che probabilmente collegate nel modo giusto contribuirebbero a formare un quadro complessivo. Mi accontento di metterle a disposizione, magari prima o poi ritroverò il gusto di ricoporre questo mosaico.
1) I miei alunni di prima media (e non solo) non sono in grado di disegnare le mediane e/o le altezze di un triangolo di cartoncino. "Nemmeno io" direbbero molti adulti. Certo, detto così pare difficile. Ma si tratta semplicemente di fare un triangolo in cartone e di tracciare tre righe che dai vertici raggiungano la metà del lato opposto o che formino angoli retti con quel lato. Suona già più facile, vero? Ho proposto questi esercizi dopo aver fornito definizioni, esempi alla lavagna, aver dettato le istruzioni (la ricetta, insomma) e guardato più volte insieme a loro le figure del libro. Risultati patetici: le perpendicolari formavano angoli di ogni genere meno che retti, le mediane dividevano i lati in parti vistosamente ineguali. Dopo essere passata tra i banchi stile maestrina con la penna rossa e aver commentato e corretto i maledetti triangolini, ho invitato i ragazzi a rifare l'esercizio e ho ottenuto… risultati fotocopia dei precedenti. Come se non avessi parlato.

2) La mia collega di lettere ha letto con gli alunni della mia classe seconda una paragrafo introduttivo di storia. Dieci righe che non comunicavano informazioni nuove, si limitavano a riassumere osservazioni del capitolo precedente. Le parole di significato ignoto alla stragrande maggioranza della classe erano più di una per riga. A non conoscerle, oltre ai ragazzi di madrelingua non italiana erano italiani veraci. Da studi ormai già antichi, se un breve capitolo contiene più di cinque parole veicolanti significati NUOVI l'alunno non comprende più il significato complessivo del testo. In queste dieci righe non c'erano nuovi concetti...

3) Gli studenti delle superiori della zona dove insegno (primissima cintura di Torino), a detta di alcuni loro docenti, non individuano relazioni di causa-effetto e se la cavano male anche con l'orientamento temporale (quale avvenimento è venuto prima, in quale secolo, prima o dopo Cristo?) Eppure queste relazioni sono obiettivi di attività didattiche mirate sin dalla scuola dell'infanzia...

4) Il numero di studenti che presentano DSA (disturbo di apprendimento specifico come la dislessia, la discalculia, difficoltà gravi di ordine logico) è in notevole aumento, tipo uno per classe. "Eh va be'. si tratta di alunni diversamente abili (già definiti disabili, e prima ancora, portatori di hc)…" direte. No, sono soggetti che presentano appunto DSA pur avendo ottenuto punteggi medi "normali", in vari test specifici che i profani chiamerebbero di "intelligenza". Un tempo erano una percentuale bassissima. Forse una volta non venivano diagnosticati. Forse venivano indicati come disabili. Forse oggi è molto meno dispendioso classificarli DSA (per loro non sono previsti insegnanti di sostegno quindi allo stato non costano una lira) e lasciarli completamente a carico degli insegnanti di classe. Forse, invece, qualcosa - nelle esperienze pregresse di questi ragazzi - li ha resi più vulnerabili a questo genere di disturbi.

5) Pare, da recenti studi, che vi sia un legame stretto tra disturbi come la dislessia, la carenza di logica ecc. e la mancanza di esperienze manuali, (noi diremmo operative), dei bambini in età prescolare. Come dire che se non hanno giocato con la terra, pasticciato con sassolini, cartoncini, colla, costruito cose con cubi e lego, poi mancherà loro un quid fondamentale.

Ora, io non mi faccio illusioni nè su di me nè sui miei colleghi. Ho conosciuto, nei tanti anni trascorsi insegnando, docenti incompetenti e poco sensibili, gente che, come tanti altri che svolgono lavori diversi, tira a campare. Però ho conosciuto anche tanti, davvero tanti, docenti che si danno l'anima per insegnare meglio. Seguono corsi (anche i troppi corsi inutili, "non si sa mai"), partecipano a progetti, discutono metodologie, risultati e modi di valutare con altri colleghi. Nella mia scuola un gran numero di docenti è attualmente coinvolto in attività di questo genere. Come ho detto l'altra sera, in preda allo sconforto: NOI (la maggioranza di noi, almeno) DIVENTIAMO SEMPRE MIGLIORI a insegnare. D'altra parte facendo il medesimo lavoro per decine di anni, tutti o quasi migliorano almeno un po'. E poi ci sono i "giovani". Potrà sembrare incredibile ma esistono giovani laureati che scelgono di insegnare. Non accettano il lavoro come ripiego, vorrebbero farlo bene. Ovviamente grazie alle forbicione di Tremonti e allo zampino del gatto Gelmini molti di loro sono stati buttati fuori dalla scuola, ma posso dire con soddisfazione che qualcuno resiste. Esiste, anzi. Così, mediamente noi miglioriamo.
Ma loro, gli alunni, continuano a "PEGGIORARE".
Vorrei illudermi che sia soltanto la mia ottica distorta di insegnante veterana a crederlo.
Ma temo che non sia così.

martedì 28 settembre 2010

virtuosismi ecologici solo per casalinghe/i?


Sto sfogliando un libretto dal titolo promettente: Come salvare il mondo in 200 piccole mosse (Robert Hamilton, pp.106, leggere editore, euro 10.00): due consigli ecologici per pagina, ognuno illustrato da una vignetta.
Magro e troppo caro, "l'agile libro" dispensa consigli che vanno dal sacrosanto (comprare detersivi alla spina consente di non sprecare contenitori di plastica), all'ovvio (chiudete il rubinetto mentre vi lavate i denti o mentre vi insaponate sotto la doccia), al melenso-impraticabile (piantate un albero per festeggiare la nascita di un bambino; e dove? nell'inesistente giardino condominiale? in aperta campagna, su terreni non vostri? in un bosco, proprio sulle radici di un altro albero?), al surreale (controllate che il collare antipulci del vostro cane sia fatto di materiali ecologici). Alcuni consigli si ripetono, altri sono difficili da mettere in pratica: ottimizzare le rotte aeree (non ripassare su cieli già visitati nel medesimo volo) consentirà anche di ridurre il tragitto da compiere e quindi le emissioni di anidride carbonica, ma come faccio a riconoscere "le compagnie che si attengono a questa filosofia"?
Le esortazioni che davvero mi irritano, però, son quelle del tipo: "niente è buono come i cibi fatti in casa", quindi producete in casa… letteralmente di tutto: pane, pasta, marmellate, birra, saponi, termicidi naturali, detersivi per pavimenti a base di aceto bianco, bicarbonato e alcol; inoltre scegliete con consapevolezza, leggendo attentamente tutte le etichette di ogni prodotto acquistato al supermercato, portate il polistirolo e le lampade a basso consumo energetico in centri di raccolta appositi, affidate il cambio di gomme dell'auto solo a gommisti che le ricicleranno ecologicamente e via favoleggiando.
Domanda: ma in una famiglia come la mia (due adulti che lavorano e una figlia che frequenta l'ultimo anno del liceo), chi si assumerà il compito di mettere in pratica tutti questi saggi consigli trascorrendo la mattinata a ispezionare i prodotti del supermercato, l'intervallo di pranzo a conferire alle apposite discariche i prodotti inquinanti che l'AMIAT non si sogna nemmeno di raccogliere in bidoni dedicati e raggiungibili, il pomeriggio a cucinare cibi deliziosi ed ecologici (beninteso spegnendo il forno un po' prima della cottura per non sciupare energia e sistemando i predetti cibi nel frigorifero solo dopo che si sono già raffreddati a temperatura ambiente) e il fine settimana a produrre in casa detersivi, saponi e birre e a pulire i tappeti con il bicarbonato di sodio invece che con gli odiati prodotti chimici?
Non voglio accusare Mr Hamilton di sessismo e ipotizzare che si tratti della solita donna di casa. Di certo l'autore avrà pensato a un generico umano di casa, maschio o femmina. Il problema è che noi, in famiglia, l'umano ce lo dobbiamo ancora procurare. Voglio proporre al coniuge e alla figlia di adottare, o meglio ancora di sposare, un umano casalingo di comprovata virtù al quale affidare la salvezza della nostra animaccia ecologica. Non so come potremo mantenerlo vista la perdita di potere d'acquisto degli stipendi mio e del coniuge. Speriamo che si accontenti.
A proposito, per acquisire questo ecoumano occorrerà celebrare un matrimonio collettivo, o basterà dichiarare una unione di fatto? E per gli assegni familiari, come faremo?

Scusate lo sfogo, anche a me piacerebbe essere ecovirtuosa, ma NON a prezzo del mio lavoro (e del mio stipendio)

lunedì 30 agosto 2010

3 de/scrivere

Parliamo un po' della descrizione, ora. Quelle che seguono sono riflessioni sparse, che partono, però, proprio dall'inizio, dalle domande più ovvie.
È indispensabile descrivere un personaggio?
Tanto varrebbe chiedersi se sia indispensabile avere un personaggio. Per scrivere un storia di solito occorre, appiopparla a qualcuno. Altrimenti non è una storia, ma un (più o meno lungo) bollettino dell’ANSA.
Naturalmente occorre intendersi sul termine «personaggio». Nell’antichità non sempre i personaggi erano caratterizzati come tali, ma descritti tramite una delle loro passioni o caratteristiche dominanti: l’ira di Achille, la curiosità e l’astuzia di Odisseo ecc. Eppure Achille e Ulisse erano davvero personaggi, non soltanto tipi. Perché? Perché erano essenzialmente, grandiosamente umani.
Prima conclusione: per scrivere una storia ci vuole un personaggio che deve assomigliarci abbastanza da permetterci di capirlo (identificarci con lui/detestarlo/ disprezzarlo…). Insomma, abbastanza da suscitarci emozioni.
È indispensabile dargli un nome?
No. Fior di scrittori hanno evitato di assegnare un nome al loro personaggio. Possiamo consapevolmente (e molto ambiziosamente…) decidere di tacere il suo nome perché rappresenta la condizione umano Oppure perché vogliamo creare mistero o senso di distanza, impedire al lettore di entrare in intimità con lui. Possiamo anche fornirgli un soprannome, uno pseudonimo, chiamarli Cappello Verde, Il gran Lombardo (come Vittorini) ecc. Possiamo non usare il nome perché il narratore e il personaggio sono già fin troppo intimi (per esempio se il personaggio e il narratore coincidono, o se il personaggio è l’unico oggetto di attenzione del narratore). O perché un certo personaggio ha soltanto il ruolo di uditore, come accade nel romanzo epistolare, come fa De La Mare in Memorie di un donna in miniatura (Mio caro amico… e giù trecento – magnifiche – pagine di lettera).
Comunque, se decidiamo consapevolmente di fornire un nome al personaggio, ricordiamoci che il nome non è un accidente in narrativa, non è neutro, ma ne è parte integrante:
Quando si svegliò, Gregor Samsa… Gregor non solo esiste ma ha un nome austero e insieme ordinario, il nome giusto per rendere credibile la trasformazione di un oscuro impiegato in scarafaggio… il nome adeguato a garantire che Gregor, con quel nome, non è certo il tipo bizzarro da andarsi a cercare un destino tanto incredibile, che diventare uno scarafo avrebbe potuto accadere a ognuno di noi. Oltre che, naturalmente, solo e soltanto a lui, Gregor. Ma Kafka avrebbe ottenuto il medesimo risultato così: Quando si svegliò, Arcimboldus de Ferlecchis…?
Teniamo presente, invece, che battezzare un personaggio Fardezio Mud (Il sottolineatore solitario di M. Bosonetto, Einaudi), denuncia l’intenzione di guardarlo dall’alto e non consente ai lettori di identificarsi completamente. Il personaggio, insomma, non ha più completa autonomia. E procediamo.
Descrizione diretta
Adele era una ragazzina di dodici anni, alta e magra, con i capelli biondi, indossava sempre e soltanto tute da ginnastica. Arrivava a scuola perennemente in ritardo. Suo padre, un ingegnere con la passione della lettura, aveva coltivato in lei la curiosità e lo spirito d’osservazione…
Nel ventesimo secolo (e nel ventunesimo) questo tipo di descrizione non usa più e quando viene rispolverata è comunque utilizzata in maniera particolare. Sempre De La Mare, per esempio, nel testo… descrive minuziosamente il personaggio per sottolinearne l’indefinibile stranezza e il legame inquietante che si crea fra lui e il narratore.
Descrizione indiretta
L’Adele di allora dava l’impressione di riuscire a bucare con i gomiti e le ginocchia la tuta rossa da ginnastica e di inciampare nei piedi troppo lunghi. Correva sempre, la treccia bionda che sbatteva sulle spalle e una pila di libri e quaderni con la copertina gialla sotto il braccio. A suola la rimproveravano spesso per i troppi ritardi, ma Adele non perdeva tempo, semplicemente di fermava ad ascoltare e a guardare.
Così di Adele ne sappiamo decisamente di più: le piacciono il rosso e il giallo, probabilmente si sente goffa, riceve spesso sgridate ottuse che non merita. È capace, nonostante sia sempre affannata, di fermarsi contemplare il mondo.
N.B. In un racconto, l’importanza di calibrare un descrizione è ancor maggiore: se in un romanzo avete duecento pagine di tempo per descrivere il personaggio, in un racconto medio ne avete dieci, quindici. E non potete seppellire il povero lettore sotto una valanga di puntigliosi aggettivi.

Dov’è il narratore?
Quando il narratore descrive, dove si pone rispetto al suo personaggio?
La bella Iset s’immobilizzò a un metro da Ramses. Lui, il suo primo e unico amore, continuava a impressionarla. Era troppo grande per lei, Iset non sarebbe mai riuscita a cogliere la vastità del suo pensiero. Ma la magia della passione colmava quell’insuperabile fossato (C. Jacq).
Non c’è dubbio, Ramses è visto dal basso verso l’alto. Sinceramente, il brano mi fa schifo, ma rivela con innegabile chiarezza che Iset è innamorata e timorosa di Ramses e che Ramses vede lontano, pensa in grande, concepisce disegni che lei, poveraccia, nemmeno vuole immaginare (oppure, scegliete voi, che Iset è un po’ scema, Ramses un pallone gonfiato e Jacq un autore pedestre, conservatore e maschilista).
Fardezio Mud lottava per imporre un ordine alle pagine del suo manoscritto, cinquant’anni di fatiche destinate a restare nell’ultimo cassetto della scrivania. Finalmente le pagine accettarono di restare, almeno temporaneamente, al loro posto, una dietro l’altra secondo numerazione. Ma Fardezio non si illudeva: avevano soltanto firmato una tregua.
Anche questo fa schifo, lo so. E non è di Bosonetto, al quale chiedo scusa. È mia. Scrivendola, ho scrutato Ferdezio dall’alto in basso, con sufficienza, l’ho descritto patetico, nella sua lotta di perdente con gli oggetti e il destino (e mi sono sentita geniale, modestamente). E vi ho impartito quest’ordine subliminale: non aprite quel cassetto. Tanto i cinquanta chili di pensate di Fardezio sono un pacco di fregnacce.
Paddy Verchoyle era un uomo che aveva le mani in pasta in una mezza dozzina d’affari, quasi tutti redditizi e che sarebbero ancora migliorati col tempo. Paddy era quel tipo di persona. Lui stesso era un po’ artigiano, e non gli piaceva avere a che fare con materiale di seconda qualità: lottava come una furia con coloro che cercavano di rifilargli mercanzie scadenti. Avrebbe potuto esser ancor più ricco ma nello stesso tempo avrebbe anche potuto essere più povero, e al momento non stava certamente diventando tale. (Frank O’Connor Il raccontatore, Sellerio).
Qui il personaggio è visto di fianco, alla pari, con interesse e partecipazione, ma non con parzialità. Paddy non è uno stinco di santo, non gli piace passare per scemo, ma non è troppo avido. Insomma è una persona come tante che potrebbe anche risultare simpatica e sorprendete. (e infatti lo è). La visione di fianco è senz’altro più promettente, quella che rivela di più e che maggiormente intriga il lettore. I personaggi visti di fianco possono essere anche meschini ed egoisti, ma essendo molto umani non risultano mai completamente odiosi e estranei. ( Per inciso, sono quelli che più ci aiutano a sviluppare l’empatia).
Dentro!
Il narratore, però, può essere all'interno, ovvero portare il lettore nella mente del personaggio. Il punto di vista della narrazione può essere quella del narratore onnisciente (NO), l’indiretto libero (IL), la prima persona (IO). Comunque del personaggio si conoscono direttamente non solo e non tanto le caratteristiche somatiche, ma soprattutto i pensieri, le emozioni, spesso rese con la tecnica del monologo interiore (MI). È il modo che mi è più congeniale di descrivere un personaggio importante, che il lettore deve accettare, compatire, con cui può identificarsi mentre è troppo dispendioso per un personaggio
Dio sta nei particolari?
Probabilmente sì, almeno quando si occupa di letteratura. Frasi come «Carmen siede sulla sedia». possono suonar ovvie (e dove potrebbe sedere, la povera Carmen, per aria?) o essere illuminanti (ci sono cinque comodissime poltrone, nella camera, e il lettore lo sa. Ma Carmen ha scelto l'unica sedia…). Stiamo quindi attenti, chiediamoci se il dettaglio che abbiamo descritto sia indispensabile, utile o superfluo, piazzato lì per non troncare la frase, per conferirle un naturalismo ovvio.
Nella narrativa un rigido naturalismo è un vicolo cieco. In un’opera rigidamente naturalistica il particolare è presente perché connaturato alla vita, non perché connaturato all’opera […] L’arte è selettiva e la veridicità è la veridicità dell’essenziale che crea movimento. (Flannery O’Connor, Il territorio del diavolo)
Se Carmen sceglie la sedia, invece di una poltrona, avrà i suoi motivi. Forse vuole punirsi, o forse rifiuta di rilassarsi e vuole rimanere in guardia. O forse la sedia è posta davanti alla finestra e Carmen deve assolutamente vedere che cosa accade in strada. O forse… Se non sappiamo perché Carmen debba sedere «sulla sedia» e non semplicemente «sedere», forse faremmo meglio a posare la penna, o togliere le dita dalla tastiera e ad aspettare fino a che la nostra visione di Carmen, lì seduta, non si fa più precisa.
A proposito, ho sempre pensato al territorio del diavolo come a quel luogo della mente in cui il lettore forse non vorrebbe andare, ma dove intende portarlo il narratore onesto, che senta il bisogno di raccontare un storia parlando di noi (la gente) e non di se stesso, e di dire qualcosa che valga la pena di essere letto. Anche domani.

mercoledì 21 luglio 2010

2. SISTEMATICA DEL Dialogus dialogus

Aprite un po’ di libri (o magari sfogliate un po’ di vostri scritti) e cerchiamo di suddividere i dialoghi in categorie. Per cominciare potremmo ipotizzarne tre, tenendo però conto che qualunque suddivisione ammette tutte le possibili varietà intermedie o gradazioni (mai visto due piccioni esattamente uguali?)




1.Dialogo strumentale o informante.
2.Dialogo personale o formante.
3.Dialogo teatrale /sceneggiatura


Per quanto riguarda le prime due categorie, la distinzione viene data in rapporto alla funzione del dialogo nel testo. Informante adempie principalmente alla funzione di avvisare, informare il lettore di eventi avvenuti fuori scena. Non è un dialogo secondo la definizione iniziale del dizionario di retorica, ma una forma narrativa dove i personaggi hanno sostituito il narratore onnisciente nel mettere al corrente il lettore di fatti essenziali alla lettura. La versione più pedestre del dialogo informante è quella adottata da molti autori di fantascienza tecnologica degli anni Quaranta:


– come certo lei ricorderà, professor Heinechen, – intervenne Johnny Karlsberg – il disassemblatore ellissocardanico è stato inventato nel 2030 per sconfiggere i perfidi Bau-Uau. Funziona sul principio della disaggregazione molecolare inducibile in un campo ellittico attraverso un cannone energetico montato su un giunto cardanico…


Il prof. Heinechen sa benissimo che cosa sia il disassemblatore ellissocardanico, quando sia stato inventato e come funzioni (anzi, se avesse un po’ di autonomia invece di essere un personaggio manichino, saprebbe anche che il pistolotto di Johnny Karlsberg è assurdo). Ma il lettore, beota e ignorante, deve essere dettagliatamente informato sulla potente arma.

Oggi, grazie al dio protettore dei lettori, questo genere di dialogo non si usa più (o no?).

Ma sono utili dialoghi come il seguente:


– Ci siamo, è cominciata. – Annuncia Rob entrando a precipizio nello studiolo di Magda. – La gente non ne può davvero più. Si sta radunando davanti ai supermercati e ai centri commerciali, proprio come prevedeva Enrico, l’altra sera.
– Anche l’altro mese, dopo l’ennesimo aumento ella benzina, facevano casino, – Magda continua a decorare la borsa di cuoio commissionata dalla signora Biamonti, – ma poi hanno ingoiato tutto, come al solito.
– Sì, ma questa volta è diverso. Al SMS di largo Savoia hanno sfondato i tornelli e razziato gli scaffali.
– Gesto isolato di pochi facinorosi – Magda sorride storto e imita alla perfezione il tono saccente dello spaccianotizie della Mediamed.
– No, è proprio cominciata. Sono disordini di piazza, non gesti isolati, non è escluso che facciano intervenire l’esercito.
– E chi lo dice che è cominciata?
– Mah. – Nel tono allarmato di Rob s'infila una sottile soddisfazione. – I tuoi occhi, per esempio… – Indica la finestra con un cenno discreto della mano.
Magda si alza di scatto, raggiunge la finestra, scosta la veneziana. Il primo blindato lince svolta dal viale e subito viene circondato da decine di persone a svolto scoperto. Per un attimo tutto tace, come congelato nel tempo, poi parte la prima molotov.


Scegliendo la parte del narratore onnisciente potevo evitarmi il dialogo, naturalmente:


Nel primo pomeriggio la folla si radunò, ben decisa a sfondare le saracinesche del Mall. Impazienti e rabbiosi, non riuscendo a spuntarla contro le chiusure di sicurezza, percorsero il grande viale urlando slogan, poi si sparsero nelle vie intorno, giungendo proprio sotto il laboratorio di Magda. Era gente comune, impiegati, pensionati, piccoli esercenti condannati alla chiusura dalla crisi. La collera per l’ingiustizia patita li sorreggeva: non indietreggiarono nemmeno di fronte al blindato lince inviato in segno di avvertimento su richiesta del sindaco.


Ma salta subito all’occhio (e all’orecchio) che la descrizione è noiosa e ideologica, mentre il dialogo crea una tensione crescente, fa avvenire le cose in diretta.


La terza categoria è largamente spuria e qui vuole indicare i dialoghi nei quali gli incisi non svelano il pensiero dei personaggi ma i loro gesti e atteggiamenti e quindi potrebbero essere sostituiti con istruzioni di scena (cammina avanti e indietro - si torce le mani - continua a giocare con la sigaretta spenta - abbraccia l’amico sorreggendolo…).
Il teatro è essenzialmente formante e solo episodicamente informante. In questo caso la categoria si applica alla forma-dialogo piuttosto che al suo significato nel testo.


Ma è la seconda categoria a rappresentare il dialogo per eccellenza, quello in cui due personaggi, mossi da scopi diversi, comunicano influenzandosi vicendevolmente. Al termine del dialogo formante si dovrebbe poter affermare che i due hanno maturato una visione del mondo leggermente diversa da quella che avevano all’inizio. Parlando i due personaggi si svelano all’altro e a se stessi (e a chi legge). Proprio come accade nella vita reale, può accadere loro di scoprire il proprio pensiero parlando. Il dialogo formante permette di definire appieno i loro caratteri; non solo, costituisce una forma di azione e mette il lettore di fronte alla possibilità di schierarsi (con uno dei due) o di maturare sua volta un punto di vista ibrido.

Ricordo che, nel corso di una concitata assemblea studentesca al liceo, una coraggiosa e coerente (ora lo posso riconoscere) docente di filosofia affermò: «noi dialoghiamo per scoprire la verità». Allora mi sembrò la tipica sparata di un docente conformista. Mi sbagliavo. Quella frase mi ha guidato e insegnato la pazienza tante volte, mentre discutevo con mia figlia o con i miei studenti. E spesso mi torna in mente mentre scrivo e rileggo. Quello è il momento di diventare impietosi: o il dialogo che ho scritto è puramente informante o deve lasciare i personaggi (e me) un po’ diversi rispetto all’inizio.
Oppure è inutile, serve solo a riempire una pagina. Meglio cancellarlo.

Al di là delle categorie di comodo, spesso i dialoghi efficaci si pongono a cavallo delle tre categorie: informanti ma al contempo formanti, descrittivi della psicologia dei dialoganti e ricchi di azione e di movimento.

lunedì 5 luglio 2010

1 - Chi parla con chi?



Secondo il sociologo Goffman qualunque conversazione ha un’intrinseca possibilità di fallimento, ovvero può mancare di efficacia comunicativa. Le parole, quindi, devono essere scelte con estrema attenzione.
Ma noi non disponiamo soltanto delle parole.
Innanzitutto, in numerose occasioni le parole possono essere sostituite da altri segni (strizzatina d’occhi, cinque dita alzate, V di vittoria…) altrettanto efficaci.
Secondariamente, oltre alle parole e ai segni convenzionali, numerosi altri elementi (la mimica, le interiezioni, le citazioni, i sorrisi, i dinieghi e i cenni d’assenso) costituiscono l’ossatura del dialogo. Siamo talmente abituati a usarli (noi primati siamo soprattutto animali visivi) da ricorrere continuamente, negli sms e nelle e-mail a quelle pallide imitazioni che sono le emoticon.
N.B. questi elementi essenziali alla comunicazione costituiscono una parte rilevante dei cosiddetti incisi del dialogo narrativo (ma va’! – Agata accompagnò l’invito con una linguaccia.)
Ma qual è il ruolo narrativo del dialogo?
Tralasciando quello che chiamerò per ora il «dialogo di servizio», quello utile solo a tratteggiare gesti e comportamenti («passami il martello», «Toh»), il dialogo costituisce una forma altamente raffinata della narrazione, nella quale due o più personaggi utilizzano «una forma appropriata a esprimere sentimenti diversi e a discutere idee opposte». (aa vv dizionario di retorica e stilistica , UTET)
Semplificando al massimo, potremmo attenerci alla prima parte della definizione, lasciando la seconda a un uso più filosofico. Ma questo non è del tutto vero: pensiamo alla scena clou di un romanzo nel quale sia trattato un tema come la segregazione razziale. Il dialogo/confronto di idee, organizzate in ideologie, può costituire l’acme della vicenda e contemporaneamente svelare tantissimo dei vari personaggi; un dialogo del genere costituisce un elemento imprescindibile sia della descrizione sia dell’intreccio.
Ovviamente una simile scelta narrativa rischia di essere volta a convincere senza suscitare la reale partecipazione del lettore.
Trascuriamo il polpettone eroico/politico, almeno nella sua variante più ideologica e fermiamoci alla prima parte della definizione, quella sottolineata.
Il pregio delle definizioni ben riuscite è quello di essere vaghe nella giusta misura. Indiscutibilmente in un romanzo (e in buon parte dei racconti) i «sentimenti diversi» sono la base di una narrazione efficace e coinvolgente. Questo genere di confronto si chiama dialettica, almeno per chi non ha riposto Marx (e suo papà Hegel) in soffitta… Io ci sono ancora affezionata.
Comunque: punti di vista contrastanti da cui discendono condotte divergenti, sono la base di tutto. Provate a scrivere un romanzo in cui tutti pensano allo stesso modo e compiono scelte identiche!
Forse sarebbe un tentativo interessante dal punto di vista sperimentale, o forse potrebbe reggere in un romanzo distopico… Ma in questo caso, la narrazione dovrebbe presupporre un qualche forma di dissidenza/ resistenza/zona oscura… Altrimenti perché scrivere una storia? Una distopia a cui nessuno, nemmeno un solo personaggio, vuole opporsi non è raccontabile.
A questo punto mi sembra sufficientemente assodato che:
1 – Un dialogo efficace si avvale di segnali anche non strettamente verbali che, non facendo teatro, devono essere resi (o sottintesi, o evocati, o suggeriti) nel corso del testo.
2 – Un dialogo efficace è fatto di forme sottostanti (ringrazio ancora Goffman), ovvero di parole non dette («Che ore sono?» – «[Sono] Le undici» e di interiezioni («Che ore sono?» – «Cribbio! [Sono] Le undici!»)
3- Un dialogo efficace si basa sulla difformità di percezione reale o apparente. Il dialogo è il tentativo di giungere a una posizione comune, o in alternativa, a definire un’insanabile difformità.
Soffermiamoci un attimo sul punto 2.
Pirandello è uno degli autori italiani che ha fatto un uso più accorto e abbondanti di interiezioni volte a evocare, per quanto possibile, il linguaggio parlato. Attenzione: evocarlo, non ricalcarlo. Enrico Testa (Lo stile semplice, Einaudi 1996) cita da Il fu Mattia Pascal:
«Ecco, ecco qua! Guardi! Guarda! Vedi! Sa. Sai? Va’ là! Veramente. Dunque. Va bene ! Non so… Un po’…»
E Pirandello doveva avere ben chiari i confini di genere tra narrazione e teatro…
La lettura di Pirandello pone un grosso – grossissimo – problema. Quanto deve essere «naturale» un dialogo? Ovvero, quanto è possibile rendere alla perfezione il dialogo mattutino tra la portinaia Luisella e la signora del quarto piano che porta a spasso il cane?
Di sicuro le parole pronunciate non sono sufficienti. Probabilmente occorre utilizzare soltanto alcuni elementi, ignorare nel testo le forme sottostanti (« [Ma quanto] sei bello? – chiese Luisella al cagnolino…» , rendere la mimica attraverso gli incisi e amministrare con attendo dosaggio le interiezioni. Probabilmente occorre essere un grande scrittore…
Perec in tentativo di esaurire un luogo parigino ha consapevolmente eliminato il filtro del narratore (riproponendolo a un diverso livello, ma questo è un altro discorso…) per raccontare e descrivere TUTTO ciò che vedeva. E il Nicholson Baker, già citato da Max nel suo manuale, ha fatto più o meno la medesima cosa, descrivendo TUTTO, ma proprio TUTTO ciò che passa per la testa di un personaggio che non sta facendo nulla di memorabile.
Per quanto mi riguarda si tratta di due grandiosi, affascinanti (e tenacemente perseguiti) fiaschi narrativi.
Cambiamo argomento (apparentemente).
I silenzi.
Un dialogo è fatto di silenzi più o meno lunghi, intervallati da parole.
Anche la musica è fatta di silenzi e quindi di attese. Nei dialoghi vi sono attese. Non soltanto: certi gesti denotano stati d’animo ansiosi in rapporto a «che cosa risponderò» e a «che cosa mi risponderà». Questi stati d’animo spesso vengono illustrati direttamente: «Era nervoso mentre attendeva la risposta di XY», oppure di esitazioni: «…» (ad esempio con i trenini di puntini che tanto piacciono a Baricco e imitatori).
Naturalmente gli autori non sono tutti uguali: Cormac McCarthy risolve le attese e i silenzi in descrizioni della natura circostante, facendone uno specchio dell’ansia, della perplessità, della sofferenza del personaggio.
Insomma, un dialogo può (deve) essere arricchito da numerosi elementi descrittivi, grafici ecc. Silenzi, attese, incongruenze, ritardi di comprensione, equivoci sono elementi cruciali. Aggiungiamoli quindi come punto
4 – Un dialogo efficace è fatto anche di «vuoti»: silenzi, ritardi, esitazioni.
Silenzio e suoni, inutile dirlo, formano una struttura musicale.
Qual è la musicalità del vostro (nostro) dialogo?
La narrativa non è mera vita vissuta, ma simulacro, mimesi e non copia; è quadro, acquerello, bozzetto, graffito e non istantanea. Deve possedere una forma (nascosta ma avvertibile) scandita, una musicalità percepibile. Provate ad ascoltare un dialogo in una lingua che non comprendete… Lasciatevi attraversare dai suoni e dalle pause: dopo un po’ avrete la sensazione di strutture che si ripetono, di silenzi e di pause altamente strutturate, di un procedere regolare e «narrativo». E pensate a come imitatori e comici fingono di parlare lingue diverse.
Questo andamento deve essere riprodotto anche nella narrazione e nel dialogo.
Ma non bisogna accontentarsi di riproporre un ritmo elementare e prevedibile.
Facciamo un esempio (B = battuta; I = inciso; P = pensiero)
B1 – Non riesco a ricordarmi di comprare lo scottex
B2 – nemmeno io. Mi ricordo tante cose ma lo scottex… I1 Lubna si passò le dita tra i capelli verdi e sospirò. P1 Non è l’unica cosa che non riesco a ricordare.
B3 – Anche gli assorbenti, anche quelli. – I2 Aggiunse Tammy.
B4 – Io non ne ho bisogno, lo sai, sono un’androide. – I3 Le ricordò Lubna P2 Non si ricorda mai di un cazzo, quest’idiota.
Schematizzando: B-B-I-P-B-I-B-I-P
Possiamo andare avanti così per mezza pagina. Poi basta mezza pagina di D (descrizione) e il compitino è fatto. Ma è brutto.
Che cosa c’è che non va?
Apparentemente nulla. C’è tutto quello che serve e in misura ragionevole. A me, tuttavia, e a molti lettori, la ragionevolezza non piace. Perché spesso confina con la prevedibilità. Oltre a questo, musicalmente parlando, il brano fa schifo. Suona ovvio: tran-tran. Niente musica
Dopo dieci pagine il lettore sa già dove finiranno le virgole, gli incisi, le smorfie e i pensieri. A forza di BIP, DIB e PIP non si va da nessun parte. Non esistono schemini nella buona narrativa.
Compitino: rileggiamo i nostri dialoghi e proviamo a riscriverli dove c’è una sovrabbondanza di BIP-BIP.
E aggiungiamo un punto al nostro elenco:
5 – Un dialogo efficace ha bisogno di un ritmo percepibile a chi legge (soprattutto se legge ad alta voce).
Diciamo una mescolata a tutti gli ingredienti e contempliamo il nostro dialogo fatto di parole, esitazioni, interiezioni, segnali non verbali, silenzi, ritmi e personaggi che, sia pure sottilmente, non condividono il medesimo punto di vista sul mondo…
Lubna e Tammy sono un ottimo esempio di questa sottile discrepanza, una delle due è un’androide, come percepirà il mondo, quali matrici di pensiero avrà?
Provate ad arricchire dialogo e personaggi con ulteriori elementi (riflessioni, descrizioni, allusioni, contraddizioni), rileggete ad alta voce e ascoltate
Che ve ne pare?
Niente male. È un dialogo da scrittori. Magari non grandi scrittori, ma discreti mestieranti che si leggono con piacere sì.
Ma non è finita.
Tutto quanto va moltiplicato per il numero di personaggi che inserite nel dialogo. Ognuno ha un proprio modo di parlare, di interrompere e di interrompersi, di esitare, di smorzare o indurre l’aggressività degli interlocutori. Ognuno possiede gesti caratteristici, tic, interiezioni personali (Giudabacco! Sarà efficace soltanto se… Porca paletta! Si dovrebbe…). Evitate quelli più ovvi (Nella misura in cui…, Assolutamente! Ho una problematica…), anche se, ormai, purtroppo molta gente parla davvero così. Sulla pagina scritta, funzionerebbero soltanto come parodia, ma temo che anche i comici più sgalfi li abbiano già consumati tutti.
Mettete insieme personaggi e peculiarità e siate lievi: evocate, insomma, le personalità con pochi tratti: parole e gesti essenziali, quelli giusti; è qui che il dialogo acchiappa davvero la vita per la coda.
Matematicamente parlando, per definire il numero P di possibilità di dialogo nell’ambito di un romanzo dovremmo ricorrere al calcolo fattoriale, giungendo presto a numeri stratosferici:
P = n1 x n2 x n3 x n4 x n5 x Z x Y
Dove i numeri da 1 a 5 = ingredienti del dialogo, n = numero di possibilità in rapporto a ciascuno dei punti, Z = numero di personaggi e Y = numero delle loro presenza nel corso del romanzo.
Un PC proverebbe tutte le combinazioni…
Ma noi siamo infinitamente meglio di un PC, noi siamo umani e soprattutto siamo lettori. E sappiamo (o possiamo imparare a farlo) riconoscere le combinazioni efficaci dalle semplici possibilità matematiche.
Seguite la forza!


Ricettario per scrittori


Ho letto pochi manuali di scrittura creativa veramente utili ma quei pochi sono stati preziosi. Erano stati scritti da grandi scrittori ed erano sia frutto di esperienze personali di scrittura, sia ricordo di grandi maestri che sapevano insegnare il mestiere. Ne ricordo due in particolare: quello di John Gardner (Il mestiere dello scrittore, Marietti, purtroppo introvabile) e quello di Raymond Carver (Il mestiere di scrivere, Einaudi, in catalogo). Vedi caso Raymond Carver era stato allievo di Gardner…
Altri manuali non sono stati memorabili ma mi hanno offerto qualche spunto discreto. Altri non valevano più della carta su cui erano stampati.
Parlando di narrativa, penso che esistano ricette per scrivere correttamente, ma non per scrivere bene. Probabilmente non esiste una scrittura "buona", anche se la maggior parte dei lettori sa riconoscere una pagina ben scritta. Esiste però la scrittura adeguata, capace di toccare profondamente il lettore e, contemporaneamente, tanto discreta da non farsi quasi notare. Come dice Max: una scrittura che dica abbastanza senza dire troppo.
Lo so, è chiedere tanto. Per chi scrive è un obiettivo molto ambizioso, ma perché accontentarsi di meno? Nessuno ci costringe a scrivere, se scrivere è importante cerchiamo di farlo al meglio delle nostre possibilità.
Chi scrive prima o poi affronta ogni genere di sfida: descrivere in maniera efficace luoghi mai visti (e forse inesistenti), come rendere al meglio la stronzaggine di un personaggio senza farne una macchietta… Alcune sfide, diverse per ognuno di noi, si presentano più spesso di altre.
Uno dei miei «problemi» sono i dialoghi.
È incredibile quanto sia difficile far incontrare due persone sulla carta senza che tutto suoni artificioso, pianificato a tavolino, noioso: scrivo per un'ora, rileggo e i gesti risultano improbabili e goffi, le frasi solenni, le parole sbagliate. E il tutto si svolge in un universo privo di sensazioni: niente colori, profumi, rumori. Orrore.
Così, per anni, ho studiato il problema, discusso ferocemente con chiunque mi venisse a tiro (Max per primo, naturalmente), ho preso appunti su quanto veniva detto nei gloriosi giorni del Koro. Ho archiviato un po' di paginette e, nonostante il mio disordine, le ho conservate e ritrovate. Voilà:
Ricettario per scrittori a puntate.

sabato 8 maggio 2010

4. Quando l'ho letto?

Titolo: La vita e il tempo di Michael K.
Autore: J.M. Coetzee
Editore: Einaudi ET 2001 - 2007
Trama: Michael K. è un adulto silenzioso e povero, parla lo stretto indispensabile, non ha amici né fidanzate, ha soltanto l’intelligenza delle mani e del corpo, non ha rimpianti e non ha speranze perché non dispone di categorie mentali per esprimerli, dalla vita si aspetta soltanto di durare fino a quando riuscirà a lavorare. Ma, in un Sudafrica sconvolto da una guerra indefinita e senza schieramenti, la condizione «normale» di mancanza di felicità vissuta da Michael, dalla madre e da tanti come loro, si degrada in un’insopportabile infelicità che costringe l'uomo a rifugiarsi in montagna, lontano dagli umani e libero dai pensieri e dalle parole per esprimerli.
La guerra stana Michael perfino da quel suo povero, rassegnato paradiso. Costretto a prendere finalmente atto che non avrà mai la quiete della solitudine e che gli «altri» sono
suoi simili, gli unici che potrà mai avere, Michael si rivela molto più contorto, complesso, pragmatico e adeguato a sopravvivere, di chi, disponendo di più strumenti, categorie mentali e rimpianti è abituato ad affidarsi alla rassicurante e ingannevole continuità del pensiero logico. Lento ma inarrestabile, Michael matura trasformandosi da mente «piccola» in una mente concentrata sul mondo.
Leggevo anche: Il palazzo degli specchi (Amitav Ghosh), Corpo a corpo (Iain Banks), La vita comune (Lydie Salvayre)…
Ascoltavo: Amnesiac (Radiohead), Toxicity (System of a Down), Exciter (Depeche Mode). Origin of Symmetry (Muse) Mutter (Rammstein). I Popol Vuh si stavano sciogliendo, i Mars Volta si erano appena costituiti.

Era il 2001
: Pessimo inizio in gennaio quando, a El Salvador, un terremoto provoca più di 5.000 morti. In maggio elezioni in Italia: Berlusconi e Fini, allora amiconi, battono il duo ulivista Rutelli-Farassino, così il centrodestra torna al governo insieme alla Lega. Ma non cambia mai questo Paese? (sì, certo, ma soltanto in peggio…)
Seguirà, l'11 settembre con l'attentato alle Twin Towers e, in dicembre, l'Argentina piomberà in una devastante crisi economica. Il botto si sentirà presto anche da noi.

lunedì 22 marzo 2010

3. Quando l'ho letto?

Titolo Complicità
Autore Iain Banks
Editore Longanesi e poi Tea
Trama: Cameron Colley, giornalista quarantenne alcolizzato e impasticcato, vive nella Edimburgo post tatcheriana, amando sempre meno il proprio lavoro mortificato dall'abitudine e dalle pressioni del potere. Un giorno viene contattato da un killer «militante», efferato e fantasioso, che prende di mira esclusivamente uomini d'affari senza scrupoli, politici corrotti, giudici troppo «clementi» con i colpevoli, tutta gente che Colley ha denunciato in passato nei suoi articoli. Deciso a difendere la supremazia della giustizia collettiva rispetto a quella «fai da te», Colley scoprirà, comunque. di condividere sempre più il punto di vista del killer…
Leggevo anche: Il cromosoma Calcutta (A. Ghosh) I quasi adatti (P. Hoeg), Confessioni di un artista di merda (P.K. Dick)
Ascoltavo Dig your own hole dei Chemical Brothers, OK computer dei Radiohead – che tuttora mi accompagnano – seguito, pochi mesi dopo, dal mitico Mezzanine dei Massive Attack e da Up dei R.E.M.
Era il 1997, Berlusconi ovviamente c'era, ma all'opposizione. In quell'anno una nave albanese carica di profughi venne speronata nell'Adriatico da una pattuglia della marina italiana; morirono un centinaio di persone. Sempre nel 1997 venne costituita la «Bicamerale» e D'Alema ne venne eletto presidente con appoggio di Forza Italia e dei centristi del Polo.
Non aggiungo altro.

lunedì 15 marzo 2010

PASSAGGI EVOLUTIVI




1) Le giraffe di Lamarck



2) Le giraffe di Darwin


3) L'eccessivo allungamento del collo può comportare qualche svantaggio…

4) Come anche l'addattamento ad un ambiente ctonio…



5) Mimetizzata da animale di peluche la giraffa
può occupare una nuova nicchia ecologica:
la cameretta del bimbo!



6) Anche le piccole dimensioni possono rivelarsi un vantaggio evolutivo
in ambienti adeguati come le tasche o le borsette…


7) Successo evolutivo del bassotto che "mima" il fenotipo giraffa


8) Il ragno assassino della savana attende le sue vittime mimetizzato da giraffa



9) Anche nell'ambiente scolastico la convergenza evolutiva verso il fenotipo giraffa si rivela vantaggiosa

giovedì 11 marzo 2010

1 … di tutti i tipi

Questo primo incontro è un tributo a una mia classe, quella che in quest'ultimo triennio (e forse anche in assoluto) mi ha creato più grane e problemi; sicuramente quella che mi ha provocato le peggiori incavolature.
Chiamiamola la III X. 24 undicenni scombinati, non troppo ben assortiti fin dall'inizio, un piccolo gregge di alunni contemporaneamente «troppo» (furbetti, fagnani, assenteisti) e «troppo poco» (responsabili, organizzati, disponibili verso i compagni).
Immagino che cosa starete pensando: «Eccheppalle questi docenti! Sempre lì a lamentarsi. Al giorno d'oggi gli studenti sono tutti così, e poi questi sono ragazzini!».
Va bene, allora diciamo che, a suo tempo, gli alunni della I X erano più «così» e più «ragazzini» di altri. E meno gruppo, meno classe, ecco. Presi uno a uno non erano affatto male, ma insieme… Poi sono diventati II X, e le seconde, dicono molti colleghi, sono le classi peggiori: non più bambini e non ancora adolescenti. Io di solito con le seconde mi trovo bene, ma la II X lo scorso anno è riuscita a smentirmi.
Nei primi mesi di quest'anno non ho avuto particolari motivi di ricredermi, tranne che.… be' il lupo che conosci è migliore di quello che non hai mai incontrato.
Poi, non so bene che cosa sia accaduto. Azzarderei l'ipotesi che tra noi lupi abbiamo cominciato a capirci.
Ma a fare la differenza è stato Darwin. Non scherzo, giuro! Una bella mattina ho cominciato a parlare di evoluzione, di Galapagos, di critiche alla teoria da parte dei creazionisti (allora come oggi…) e della difesa appassionata che T. Huxley fece del darwinismo. Ci ho sputato l'anima, ma non me ne sono accorta, perché mi stavo divertendo. Nemmeno di divertirmi mi sono accorta, perché ero troppo intenta a raccontare. E loro troppo intenti a fare domande, le più incredibili ma mai assurde. Mi hanno spremuto come un limone, o sfogliato come un'enciclopedia, insieme siamo saltati dalla geologia alle nostre esperienze personali con cani e gatti, passando per i riferimenti più strampalati: a Manny, il mammuth dell'Era glaciale, a come la nonna (non la mia) cucina il pollo, alle migrazioni attraverso lo stretto di Bering, ai marsupiali. Abbiamo parlato di quanto siano stati pelosi i nostri antenati ominidi e di dove siano finiti i peli, adesso, mi hanno fatto richieste degne di linguisti scafati (e io, ahimè non lo sono!).
Scena da una delle ultime lezioni, sull'evoluzione umana:
– Ieri parlavamo dell'Homo abilis e della sua scoperta del fuoco. Perché il fuoco è importante?
– I cibi cotti sono più digeribili, prof!
– La cottura ammazza i batteri.
– Per difendersi dagli animali…
– per scaldarsi!
– Illuminare!
– E poi, ragazzi?
– Parlare. … No, cantavano… No, facevamo quella cosa, la prosodia.
– Il fuoco è sociale, prof ci si mette tutti attorno…
– Prof, ma gli uomini primitivi erano cannibali?
– No, gli ominidi si sarebbero estinti, altrimenti. Il cannibalismo umano di solito è rituale, è culturale, (…)
– Quindi è un onore se ti mangiano…
– Ma siamo buoni da mangiare, prof? Che sapore abbiamo, lei lo sa?
– Dicono che la carne umana abbia un sapore simile a quello del maiale, ragazzi. D'altra parte, anche il maiale, come noi è onniv…
– Sappiamo di maiale, eh! Be' non mi stupisce per niente, prof!
Ho terminato la lezione arrampicata sul muro a studiare il planisfero in compagnia di uno dei ragazzi più "difficili" da coinvolgere. Mentre gli altri facevano l'intervallo noi due stavamo esaminando come le popolazioni amerinde fossero arrivate dall'Asia.
Immagino che alle orecchie dei puristi le nostre discussioni suonerebbero un po' strane, ma vi posso assicurare che abbiamo toccato diverse volte temi filosofici e di storia della scienza.
Con la III X, ma dai! Proprio con loro. Temo che mi mancheranno…
Che altro posso dire? Ringraziare la sorte e soprattutto ringraziare Darwin.
E farmi una bella risata: aveva ragione quella volpona della Moratti a sostenere che l'evoluzione non è argomento da trattare nella scuola media… Le teorie del vecchio Darwin sono trasgressive e pericolose perché seducono le «giovani menti» insegnando a pensare.



mercoledì 10 marzo 2010

Incontri ravvicinati di tutti i tipi

Una delle peggiori conseguenze di questi tempi brutti, profondamente impregnati di arroganza, avidità rampante e razzismo becero – in poche parole di generale ottusità – è quella di ridurci tutti a questa misura, rendendoci indifferenti, non ricettivi e privi del senso dell'umorismo. Grigi.
Io insegno in una periferia che non è più Torino e non è ancora provincia, un borgo nel quale si entra senza rendersene conto: un metro prima si è ancora nel capoluogo, un metro dopo si è in un altro comune. Da sempre, la zona è un luogo di passaggio dove la gente abita un po' di anni, per poi stabilirsi in città o allontanarsi definitivamente; nell'ultimo decennio, poi, il borgo è diventato una terra di confine fra "estraneità" e cittadinanza, dove giungono molte famiglie di origine non italiana, le più fortunate come cittadini, tante altre in attesa…
Come accade in molti luoghi a ridosso delle grandi città, questo borgo sta perdendo fisionomia, risorse e soprattutto speranza. La crisi e le conseguenti difficoltà spingono le persone a chiudersi sempre più, nello sforzo di risolvere da sole problemi che andrebbero affrontati politicamente e con risorse adeguate; lasciate a se stesse, però, diventano sempre meno comunità e sempre più un gruppo di dispersi, di profughi del lavoro, del benessere, della cultura. E, più di prima, hanno paura; i loro timori non hanno un volto preciso, microcriminalità, perdita di identità e difficoltà di comunicare con gli altri che pure vivono al loro fianco sono solo alcune delle facce… Probabilmente il loro timore più grande e più comprensibile è quello di essere abbandonati, di restare indietro mentre il resto del paese, del mondo, continua a muoversi, a camminare, sia pure con i ceppi alle caviglie, verso una sorte migliore.
Insegnando respiro quest'atmosfera, ma non mi rassegno, coltivo ancora qualche speranza, perché per insegnare occorre prima di tutto comunicare: scambiare parole, idee, stati d'animo, emozioni, ricordi. E poiché io scrivo anche, in fondo alla mia mente di docente di matematica sono ancora capace, almeno ogni tanto, di lanciare uno sguardo curioso e divertito attraverso gli occhi spazientiti, preoccupati, e spesso francamente incazzati del prof. Vedo e parlo con persone di tutti i tipi, i nostri mondi si sfiorano, talvolta provo (proviamo, spero) gratificanti sensazioni di condivisione; a questi momenti mi aggrappo quando il mio lavoro mi sembra ripetitivo e soprattutto inutile, quando parlo, parlo e non riesco a farmi capire, nemmeno (o forse soprattutto) da chi parla italiano come me.
Al di là dei voti che devo assegnare, dei bilanci didattici più o meno positivi, sono questi "incontri ravvicinati di tutti i tipi" a rasserenarmi o a darmi una fitta di angoscia, non posso semplicemente cancellarli a fine giornata. Condividere i più significativi – quelli che possono dire qualcosa anche a chi non insegna – potrebbe farmi sentire meno "grigia".

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Ieri sera, 2 ottobre 2023, è iniziata la seconda stagione del club di lettura di Solarpunk Italia, dedicata alla New Wave.  Sul link al fond...